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Tutte le bufale su Laudato si’

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Gianfranco Morra apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

Papa Francesco ha intitolato a S. Francesco l’enciclica sulla crisi ecologica: Laudato si’. La precedente enciclica Lumen fidei era soprattutto di papa Ratzinger, aveva un impianto molto filosofico. Bergoglio la controfirmò. Questa nuova è tutta sua. Per la prima volta, una enciclica interamente dedicata all’ecologia, che rivela lo stile del nuovo papa: le argomentazioni di forte sensibilità pastorale, la drammatica angoscia per le sorti dell’umanità, la speranza che le cose possano cambiare. Un testo facile, anche se forse troppo vasto e qualche volta enfatico e ripetitivo (246 paragrafi in 192 pagine).

Una enciclica non è un dogma, ma un forte richiamo ai fondamenti della morale religiosa. Il cristiano le si avvicina con disponibilità e gratitudine, non disgiunte da riflessione e criticità. Soprattutto nel fenomeno descritto e denunciato: l’uso illimitato e anche scriteriato della tecnica ha prodotto prima in occidente, poi in tutto il mondo una catastrofe per ora irreversibile, che potrebbe condurre alla distruzione l’intera ecumene, la stessa vita sulla terra.

Per alcuni importanti filosofi, da Heidegger a Severino, il trionfo della tecnologia è il destino dell’Occidente. Le sue radici sono nella Genesi, dove Dio impone ad Abramo di sottomettere (subjicite) e dominare la terra. Dominarla, però, per il bene dell’umanità, non per distruggerla ma per custodirla (ut custodiret). Questa «biblicità della tecnica» non si trova nelle altre religioni. L’Occidente, ebraico e cristiano, ha secolarizzato la natura, creando così la civiltà del fare e, purtroppo, anche della distruzione della natura.

Un dominio e una spoliazione che sono serviti a migliorare le sorti dell’umanità. L’Occidente per primo ha realizzato e trasmesso a tutto il mondo allungamento della vita, fine delle epidemie endemiche, vittoria sulla fame, incremento del benessere, riduzione della fatica, aumento della cultura e del tempo libero. Questi progressi non riguardano tutti, né tutti nella stessa misura, ma hanno cambiato il mondo in meglio. Sappiamo però che sempre, nella vita, il bene e il male sono legati: ogni progresso è sempre accompagnato da un regresso, ciò che si guadagna in un senso, si perde nell’altro. Non esistono le «magnifiche sorti e progressive», la situazione umana è sempre ambivalente, incerta e problematica.

Come mostrano i terribili segni di distruzione della natura, che l’enciclica enfatizza: la scomparsa di specie animali e vegetali, la distruzione delle foreste, il riscaldamento climatico, l’esaurimento delle risorse naturali, la penuria di acqua, l’insufficienza del cibo, l’inquinamento delle terre, dei mari e dell’aria. Il flagello della fame è molto diminuito, anche se la popolazione della terra ha superato i 7 miliardi, ma ancora colpisce troppi milioni di esseri umani. L’enciclica ripropone la riconquista di quell’atteggiamento di rispetto per il creato, che, all’inizio della civiltà del fare e dell’avere, S. Francesco insegnò nella maniera più alta col «Cantico delle creature», per il quale dettò anche la musica.

Il ripetuto attacco del «Cantico» apre anche l’enciclica: «Laudato si’, mi’ Signore». Il papa sa bene che i mali causati dalla tecnica non possono essere vinti solo con la tecnica. Ci vuole soprattutto una ecologia umana, un salto dalla civiltà dell’usa e getta alla civiltà del dono. L’enciclica non indica rimedi specifici, ma propone la riconquista di quella antropologia che consente, con l’aiuto della scienza, di programmarli. Essa mostra che il progetto della decrescita (produrre, consumare, sprecare meno, recuperare di più), sostenuta da ecologi come Serge Latouche, Massimo Pallante, Paolo Cacciari, Massimo Fini, non risolve il problema. La tecnologia non è demoniaca, purché il comando divino del«sottomettere» la natura sia associato a quello di «difenderla»: «Rinunciare a fare della realtà un mero oggetto di uso e dominio».

Meglio allora un diverso modello, quello della crescita sostenibile. Dato che i bisogni necessari e anche superflui sono in aumento e, senza crescita, la popolazione va incontro alla miseria e alla fame, è necessario continuare sulla strada della produttività, ma con attenzione e razionalità, usando tutte quelle cautele che la rendano meno distruttiva della «casa comune». Non basta l’ecologismo individuale, ci vuole una ecologia sociale, che parta dalla conversione interiore e si traduca in rispetto per la natura e gli uomini, che sono fra di loro interdipendenti. Purtroppo più che le multinazionali, sono oggi le nazioni sino a ieri povere che stanno entrando in maniera forte nella crescita economica e non se la sentono di cambiare rotta.

L’enciclica non evita di mostrare i danni che un uso interessato e illimitato della tecnologia arreca all’equilibrio ecologico. Tanto che il Papa, venuto dalla lontana e povera «fine del mondo», è stato accusato, non sempre a torto, di insistere su vecchi argomenti ideologici, tanto usati e abusati dal comunismo, tornati a galla nella Santa Sede insieme con la teologia della liberazione del suo amico, l’ex-padre Leonardo Boff. Ecco allora alcune scivolate dell’enciclica nel catastrofismo, la facile polemica contro il salvataggio delle banche, l’insistenza confusa sull’uso sociale della proprietà.

Tuttavia l’enciclica sottolinea anche fatti reali e indiscutibili. Un papa avvezzo a parlare nei più svariati luoghi con una spontaneità talvolta brutale, ha saputo inserire il discorso ecologico dentro alcune verità tradizionali della religione e della morale naturale. L’amore francescano, che a quei tempi non poteva certo essere ecologia, va bene, purché non sia animalismo radical chic: sbaglia chi si cura soprattutto di cani e uccellini, mentre poi difende l’aborto, l’eutanasia, l’uso scientifico degli embrioni, rifiuta la bipolarità sessuale inventandosi il gender. Niente contro l’Ogm purché la scienza ci mostri che non è nocivo, niente contro le grandi linee dei trasporti, purché siano mantenute nel rispetto dell’uomo e della natura.

Un’enciclica, dunque, che rispetta la scienza, non condanna la tecnologia, non anatemizza le industrie quando siano «pulite». E che si situa nella tradizione, guarda indietro solo per andare avanti: dalla Bibbia al Vangelo, da S. Agostino a S. Tommaso e agli ultimi papi, c’è unità, coerenza e concordia. Sono rimasto colpito dal fatto che l’enciclica ricorda più di tutti il filosofo veronese-tedesco Romano Guardini. Lo conobbi, mentre io crescevo e lui declinava, al Centro filosofico gestito dai gesuiti a Gallarate. Il libro citato da Bergoglio, La fine dell’epoca moderna (1950; in italiano dalla Morcelliana), è una presa di coscienza lucidissima della crisi di una civiltà, che ha privilegiato l’arbitrio sulla legge, il libertarismo sui valori, il possesso sul dono, l’individualismo sulla solidarietà, l’artificiale sull’autentico, la quotidianità sulla perennità, concludendo spesso nella distruzione della natura e dell’uomo. Le parole di questo filosofo, monacense come Ratzinger, costituiscono un aurea sintesi del messaggio dell’enciclica: «L’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza, la sua possibilità di farne un uso cattivo è in continuo aumento, quando non esistono norme di libertà, ma solo pretesa necessità di utilità e sicurezza» (p. 81). Oggi lo ripete Bergoglio, ieri lo diceva Albert Einstein.

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