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Vi racconto quello che ho visto alla Stazione Centrale di Milano

“Per te ci vorrebbe un 40 ma non so se in questo bustone c’è qualcosa. Adesso diamo un’occhiata”. A parlare è una volontaria di Soserm, davanti a lei, accovacciate sulle ginocchia, quattro donne eritree, tra i 16 e i 25 anni, con gli occhi grandi e il sorriso spento sul viso che rovistano in un sacco nero pieno di scarpe.

Entrando sotto i portici della stazione centrale di Milano si è avvolti da un odore terrificante di pipì, dalla fame di sopravvivenza di una folla spaesata e timorosa, dalla generosità di chi regala tempo, cibo, vestiti, scarpe, giochi per bambini.

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Da giorni sentiamo parlare di immigrati eritrei, somali, siriani… Da giorni vediamo immagini alla tv di persone che inseguono il riscatto della loro vita. Da giorni si applaude al senso di accoglienza degli italiani. C’è chi li difende a spada tratta, c’è chi sostiene che bisognerebbe non farli proprio partire da casa loro e ancora chi fa un passo indietro e chiede aiuto al fantasma Europa. Tutto vero, ma trovarsi davanti una carovana di persone che aumenta di ora in ora e che ti chiede aiuto fa un certo effetto. Scappano dalla guerra, dalla fame, dalla violenza. E giusto a casa nostra dovevano arrivare? Lo stiamo pensando tutti, è umano sentirsi “invasi” ma ormai sono qui e rimandarli indietro proprio non è possibile.

Non spiccicano parola di italiano, solo un po’ di inglese e tanto tanto tigrino e arabo. Si mettono in coda diligenti per ricevere una banana, una mela, nella migliore delle ipotesi un piatto di pasta. Dormono per terra, su cartoni improvvisati letti in cui non faremmo stare neppure il nostro Fido. Anche le mamme con i bambini si distendono su questi precari giacigli. Eppure loro ci dicono: “Va bene così, siamo stati pure peggio”. Da qualche ora hanno chiuso “il mezzanino” (un angolo all’interno della stazione in cui si erano stabiliti insieme ai volontari) per questo adesso si dividono tra i portici e l’antistante piazza Duca d’Aosta.

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“Il mezzanino è stato smantellato per ordine del Prefetto” ci spiegano i ragazzi di Soserm che infaticabili da ore provano a ridare una dignità umana a queste persone. Insieme a loro operano tanti volontari di alte associazioni e la Croce Rossa Italiana assicura il presidio medico. Del temutissimo e chiacchieratissimo pericolo scabbia non v’è traccia, almeno per ora. Ma le condizioni sono indigenti. “Stiamo lavorando per cercare di rendere umana questa situazione” ha spiegato l’assessore alle politiche sociali del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino. I centri d’accoglienza? A Milano sono pieni zeppi. Non solo, alcune famiglie solo a sentir parlare di trasferirsi in queste strutture inorridiscono. Una giovanissima volontaria ci spiega: “Per gli eritrei i centri d’accoglienza sono quelli in cui sono stati in Libia e dove magari li hanno massacrati di botte per questo hanno paura”.

Vige comunque una diffidenza di fondo. Osservano, ascoltano, seguono le istruzioni ma solo perché questa è l’unica ancora di salvezza che hanno a portata di mano. Un passante li guarda sott’occhio e poi borbotta tra sé e sé: “Ma perché proprio a Milano?”. Effettivamente il capoluogo lombardo non è sul mare e molte di queste persone hanno caricato i loro sogni su quelle navi, che vediamo attraccare nei porti del Sud Italia, stracolme di gente e di disperazione. Milano è diventata un simbolo per i migranti. Una volta messo piede sul suolo italiano, l’unico obiettivo è arrivarci. Il perché è facilmente intuibile: viene loro assicurata assistenza, nelle strutture o per strada; ma soprattutto, geograficamente Milano è vicinissima alla Francia, alla Germania, all’Austria. E’ dunque una chimera per questo popolo di “nomadi” con cui in fondo in fondo condividiamo un impotente senso di solitudine.

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Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha spiegato: “La stazione è stata rinnovata dal punto di vista della dignità per chi arriva”. Non proprio, sinceramente. Ha ragione però quando conclude: “Il problema non è solo di Milano, è della Regione Lombardia, dello Stato italiano, dell’Europa. Dobbiamo lavorare tutti insieme”. Quanto è vero.

Molti dei profughi hanno lasciato a casa mariti, mogli, figli e genitori, sono da soli così come lo è la nostra amata Italia.


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