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Ilva e non solo, ecco come la rivoluzione giustizialista sfascia l’Italia

Nelle scorse settimane mentre seguivo un’interessante e civile discussione sul Corriere della Sera aperta da Dario Di Vico con interventi di Giovanni Legnini vicepresidente del Csm e Antonio Gozzi di Federacciai sul rapporto tra azione penale e difesa degli interessi strategici nazionali, sono stata turbata dalla violenza di una presa di posizione del pm Armando Spataro.

Il magistrato milanese non solo ha incredibilmente e pretestuosamente insultato Gozzi per non avere espresso solidarietà alle vittime di abusi ambientali eventualmente provocati da imprese ma lo ha pure più o meno accusato di fascismo perché avrebbe chiesto qualche coordinamento dell’amministrazione della giustizia alle esigenze dello Stato.

Mi ha colpito riscontrare un simile atteggiamento in chi svolge una funzione così delicata per la vita della nostra comunità: ma non mi ha stupita un magistrato che invece di spiegare come poter esercitare il compito di repressione di singoli reati in leale collaborazione con uno Stato che tra i suoi compiti ha anche quello di difendere gli interessi strategici nazionali, si definisce invece investito dalla missione di difendere “i diritti” dei cittadini.

Vi è in questa affermazione ribadita con orgoglio da Spataro tutta l’anima di quella rivoluzione giustizialista che dal 1992 sta completando la disgregazione dell’Italia. Secondo questa impostazione i magistrati non avrebbero essenzialmente il ruolo di difendere “i diritti” attraverso la loro azione professionale bensì attraverso un’agitazione simil-politica ben testimoniata dalle parole del pm milanese.

Che l’Italia abbia livelli di illegalità eccessivi, soglie di corruzione inaccettabili, una presenza grave di criminalità organizzata è sicuramente vero. Ma la persistente politicizzazione di aree della magistratura (nonostante tante toghe concentrate sul proprio dovere) ha peggiorato nostri mali profondi anche grazie all’illusione che vi siano scorciatoie giudiziarie a problemi che sono eminentemente politici (e mettendo a far politica – al di là delle anomali conseguenze amministrative, su cui qui non mi soffermo, che potrebbero manifestarsi nel futuro e provocare nuovi guasti – un magistrato come Raffaele Cantone, invece che azione giurisdizionale, si sono realizzati comunque più risultati di mille Mani pulite). Tra l’altro la frammentazione del potere giudiziario (con annesse liti interne) impedisce persino di realizzare quegli interventi autoritari che pur odiosi almeno servono talvolta a mettere un po’ d’ordine negli Stati.

E proprio in questo esorbitare dal proprio ruolo istituzionale di settori della magistratura vi è un’eredità questa sì strutturalmente fascista: perché fu il regime mussoliniano a unificare le carriere di giudici e pm secondo la sua tipica logica corporativa contrapposta a quella dei benefici conflitti (per esempio tra inquirenti e giudicanti) che sono il sale di una democrazia liberale tale anche perché comunque mette al centro le istituzioni della sovranità popolare per ogni funzione statuale con rilevante ruolo politico (come avviene per le funzioni dell’accusa nei più civili stati liberaldemocratici).

Certo Spataro ha ragione di richiamare la Costituzione nella difesa degli aspetti dell’ordinamento della nostra magistratura anomali rispetto alle altre democrazie liberali: ma come ha spiegato Luciano Violante nel suo libro “I magistrati” certi nostri ordinamenti costituzionali poggiavano sulla paura per una guerra civile derivata dal contesto internazionale. Di qui quei compromessi da Stato dei partiti più che dei cittadini, con bilanciamenti rozzi tipo le facili amnistie o le estese immunità, e l’accettazione dell’impianto corporativo fascista della magistratura.

Quando è finita la Guerra fredda, sono saltati i rozzi bilanciamenti e ci è rimasto (nonostante l’ottima volontà della stragrande maggioranza dei magistrati) solo l’incredibile potere di una corporazione, per molti versi castale, con la presenza anche di sentimenti di contrapposizione (non di legittima indipendenza come nel caso dei giudici o di quell’autonomia per i pm tipica dei normali Stati liberaldemocratici) alle istituzioni della sovranità popolare, e con vere e proprie forme di indifferenza per il crollo di comparti economici fondamentali (o delle strutture della sicurezza nazionale in altri casi).



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