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Adinolfi, Letta, Napolitano e il silenzio assordante di Renzi

C’è qualcosa di ancora più imbarazzante della telefonata dell’11 gennaio dell’anno scorso, diffusa dal Fatto Quotidiano, nella quale Matteo Renzi, da poco arrivato alla guida del Partito Democratico, confidava all’amico Michele Adinolfi, generale della Guardia di Finanza, di considerare “incapace” l’allora amico, pure lui, collega di partito e presidente del Consiglio Enrico Letta. Che non a caso fu sostituito il mese dopo proprio da Renzi, peraltro in una cerimonia di consegne a Palazzo Chigi rimasta celebre per la freddezza, di certo non ingiustificata, del presidente uscente nei riguardi del presidente entrante, con quella campanella d’argento passata gelidamente di mano senza che gli occhi dei due potessero e volessero incrociarsi.

Più imbarazzante ancora di quella telefonata, del giudizio liquidatorio sull’allora capo del governo, sul modo alquanto bizzarro di volersene liberare, prenotandolo addirittura per il Quirinale, in attesa che compisse i 50 anni prescritti dalla Costituzione, è il silenzio assordante di Renzi e dei suoi fedelissimi di fronte alla diffusione dell’intercettazione telefonica avvenuta su disposizione della magistratura di Napoli. Che controllava il generale Adinolfi sospettandolo, a torto, di avere violato segreti su un’altra indagine in corso, riguardante la cooperativa Concordia, da non confondere naturalmente con la nave naufragata contro gli scogli dell’isola del Giglio al comando dell’ormai tristemente famoso Francesco Schettino.

Non una parola è stata usata dal presidente del Consiglio, e dai suoi fedeli o fedelissimi, per chiarire le cose o solo per scusarsi con Enrico Letta, limitatosi dal canto suo a reagire definendo “squallida” tutta la vicenda, cioè il suo allontanamento da Palazzo Chigi. Che è stato altre volte da lui stesso spiegata come la conseguenza di un “errore di ingenuità”, consistito evidentemente nello scambiare Renzi per un amico desideroso di dargli una mano alla guida del governo, non di scalzarlo.

Non una parola è stata spesa da Renzi, e dai suoi amici, neppure di fronte alle richieste di alcuni esponenti vecchi e nuovi dell’opposizione di una spiegazione alle Camere, per stigmatizzare l’uso ancora una volta discutibile, per non dire altro, delle intercettazioni da parte della magistratura. Che deposita, spianando la strada alla diffusione, anche conversazioni private, quale sicuramente fu la pur improvvida e imbarazzante telefonata fra il generale Adinolfi e Renzi, di nessun valore giudiziario ai fini dell’indagine per la quale ne era stata autorizzata la registrazione.

Evidentemente a Palazzo Chigi, e dintorni, si ha tanta paura dei magistrati, al di là degli interventi sulle loro ferie, delle modeste correzioni alla loro tutele in ordine alla responsabilità civile, dei loro interventi sulla politica industriale ed altro ancora, da non osare coglierli in castagna sul tema sempre spinoso, eppure essenziale, delle intercettazioni. Il cui uso forse fa ancora comodo quando a farne le spese è il solito Silvio Berlusconi.

Proprio a proposito di Berlusconi, infine, appare assordante anche il silenzio del presidente ormai emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Del quale Renzi disse al generale Adinolfi, in quella chiacchierata telefonica a ruota libera, che ce l’aveva “a morte” con il leader di Forza Italia: un’espressione un po’ troppo fuori posto sul piano umano e istituzionale se attribuita, si spera solo a torto, ad un capo dello Stato doverosamente equanime e sereno. Sereno, naturalmente, nell’accezione buona e autentica della parola, non nella distorsione sarcastica emersa dall’uso fattone da Renzi nei riguardi di Enrico Letta, quando lo esortò a stare sereno, appunto, proprio nel momento, ahimè, in cui si accingeva a licenziarlo politicamente.

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