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Come cambia il profilo di Mattarella al Quirinale

Il profilo politico di Sergio Mattarella nella veste di capo dello Stato si è meglio definito con quel lungo e commosso abbraccio con Manfredi Borsellino, il figlio di Paolo, il magistrato barbaramente ucciso dalla mafia 23 anni fa a Palermo, poco dopo la strage di Capaci, dove era stato assassinato il giudice Giovanni Falcone, anche lui dalla mafia.

Con quell’abbraccio solidale e affettuoso – preceduto dalle dimissioni di Lucia Borsellino, anche lei figlia di Paolo, da assessore alla Sanità del governatore siciliano Rosario Crocetta, risultato scandalosamente silenzioso agli auspici di morte espressi contro di lei dal medico Matteo Tutino in una intercettazione telefonica smentita da più Procure della Repubblica ma ascoltata e pubblicata dall’Espressoè stato restituito al presidente della Repubblica il tratto essenziale, e più attinente alle sue attuali funzioni. Il tratto cioè di un mite professore universitario entrato in politica, nella e con la Dc, per raccogliere l’eredità del fratello Piersanti: il presidente della regione siciliana assassinato dalla mafia, pure lui, nel 1980.

Le circostanze drammatiche dell’approdo in politica – dove il passaggio di mano in famiglia era già avvenuto tra il padre, Bernardo, e il fratello Piersanti – e la consistente esperienza parlamentare e governativa accumulata dall’interessato prima di diventare giudice della Corte Costituzionale non bastarono al presidente del Consiglio Matteo Renzi, alla fine dello scorso mese di gennaio, per motivarne seriamente la candidatura al Quirinale.

Allo scopo un po’ maldestro di allargare i consensi al suo candidato, cioè di farlo votare anche dai grillini, Renzi con i suoi tweet indicò fra i meriti di Sergio Mattarella le dimissioni presentate nel 1990 da ministro della Pubblica Istruzione del governo di Giulio Andreotti, insieme con altri colleghi della sinistra democristiana, per protesta contro la piena legittimazione delle televisioni private di Silvio Berlusconi sancita con la cosiddetta riforma Mammì, dal nome dell’allora ministro delle Poste, del Partito Repubblicano.

Ciò che la sinistra della Dc e il Partito Comunista non gradirono di quella legge fu il diritto riconosciuto a Berlusconi di possedere tre reti televisive, al pari della Rai. Un diritto poi ostinatamente contestato con un referendum, clamorosamente perduto però dalla sinistra nel 1995.

La sconfitta in fondo subita anche da Mattarella con quel referendum e il gradimento mostrato dallo stesso Renzi per il gruppo televisivo di Berlusconi, sino a frequentarne le reti più assiduamente della Rai, non trattennero a gennaio il presidente del Consiglio dalla decisione di cavalcare i residui del vecchio antiberlusconismo della sinistra evocando appunto il no “coerente” del suo candidato al Quirinale alle dimensioni del Biscione imposte dalla regole e necessità del mercato.

Il risultato di quella scelta tattica di Renzi fu semplicemente rovinoso. L’ormai giudice della Corte Costituzionale ed ex politico Mattarella divenne un uomo divisivo. I grillini continuarono a dire no e Berlusconi fu ancora di più ricacciato sulle posizioni critiche già espresse per questioni cosiddette di metodo, cioè per non avere Renzi voluto concordare davvero con lui il nuovo presidente della Repubblica. Si dissolse così anche il famoso “Patto del Nazareno” con lo stesso Berlusconi, che aveva sino ad allora permesso al presidente del Consiglio di portare avanti il difficile percorso delle riforme, ostacolato anche nel suo partito.

Con quell’abbraccio a Palermo con il figlio di Paolo Borsellino il capo dello Stato è apparso davvero quello che è e deve essere: un uomo al di sopra delle parti, espressione non di un antiberlusconismo ormai comico, visto anche che Renzi coltiva adesso persino i vecchi temi anti-tasse del leader di Forza Italia, ma della necessità di avere al Quirinale un garante all’altezza della gravità dei problemi del Paese. Un garante capace, per esempio, di contrastare quell’immondo fenomeno dei “professionisti dell’antimafia” denunciato nel lontano 1987 fra incredibili proteste e incomprensioni dall’indimenticabile Leonardo Sciascia. Un fenomeno, quello dell’antimafia “dei pennacchi e delle carriere”, come lo ha giustamente definito sul Foglio Giuseppe Sottile, cavalcato anche dal governatore Crocetta e dai suoi amici, con quali effetti pirandelliani, comici e tragici insieme, si vede in questi giorni. Un’antimafia che riesce ad essere anche peggiore della mafia, sostituendo alle pallottole e al pizzo l’uso addirittura dei processi e delle carte, o nastri, di cui non si riescono a individuare neppure i fascicoli di illegittima provenienza.

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