Quando andavo al liceo la Professoressa di filosofia ci rimproverava perché studiavamo a “compartimenti stagni”. Nozioni memorizzate in una disciplina non venivano utilizzate per affrontare problematiche che si incontravano in altre. Quasi che la realtà fosse non un unicum complesso ma una serie di strutture contigue temporalmente e spazialmente ma distinte e tra loro impenetrabili. E del resto noi studenti eravamo intimamente convinti che lo studio delle materie scolastiche, particolarmente di materie come il latino, non potesse dirci qualcosa della vita reale.
E per molti aspetti questa convinzione era ancora più accentuata all’Università.
Questa sensazione di distacco tra la cultura e la vita reale ha evidentemente a che fare con il metodo impiegato per trasferire la conoscenza: una semplice trasmissione di informazioni dal maestro, che parla dalla cattedra, al discepolo che passivamente memorizza. Così, spesso questo trasferimento di informazione si traduce in una memorizzazione di dati che vengono ricordati giusto per il tempo necessario per superare l’esame.
Non è forse compito del sistema educativo sviluppare metodi adeguati per insegnare ai giovani come applicare le conoscenze alla risoluzione dei problemi che ogni giorno incontriamo nella vita reale? E per far questo non bisogna cambiare il nostro modo di insegnare? Come trasformare un metodo di insegnamento passivo in uno di apprendimento attivo?
Di ciò si occupa un articolo firmato da M. Mitchell Waldrop e pubblicato sul numero del 15 Luglio della rivista Nature. Un articolo che commenta una serie di iniziative sviluppate in diverse prestigiose Università americane e che hanno coinvolto premi Nobel e importanti ricercatori come Bruce Alberts, ex presidente della National Academy of Science e ex Editor in Chief di Science.
L’approccio è quello di chiedere a gruppi di studenti di risolvere problemi che potrebbero incontrare durante la loro vita lavorativa, occupandosi non solo degli aspetti scientifici o medici ma anche di quelli organizzativi e psicologici. Ad esempio, l’articolo di Nature riporta un tema posto ad alcuni studenti dell’Università della Pennsylvania e relativo ad una emergenza sanitaria causata dall’infezione di un nuovo virus. Risolvere il problema significa utilizzare sofisticate conoscenze scientifiche apprese sui libri ma anche tener presente la complessità del sistema sociale in cui si opera.
E’ ovvio che non tutti i gruppi di studenti riescono a risolvere il caso e a trovare la giusta terapia. Così alcuni dei pazienti (per fortuna virtuali) muoiono. Ma l’aspetto importante non è l’esito del test, bensì la discussione che sta alla base delle decisioni prese dai singoli gruppi.
Si possono immaginare esercizi meno complessi. Tutti condividono però la stessa strategia educativa:
“gli studenti acquisiscono una più profonda comprensione della scienza quando si cimentano attivamente con problemi piuttosto che quando ascoltano passivamente le risposte”.
Una serie di studi suggeriscono che approcci di questo genere permettono di aumentare di circa il 20% il tasso di successo universitario degli studenti. In un paese come gli USA ancora oggi solo il 40% degli studenti iscritti a discipline scientifiche (ingegneria, fisica, scienze della vita, matematica, informatica) si laurea nel settore che ha scelto inizialmente. Il 30% cambia facoltà e un altro 30% abbandona gli studi. E la situazione è ancora più grave nel caso delle donne; solo il 20% delle studentesse americane che hanno intrapreso studi in materie scientifiche, infatti, riesce a laurearsi.
Un altro aspetto interessante riguarda l’offerta formativa. In un mondo in cui è sempre più facile accedere ad informazioni e a lezioni frontali di alta qualità su internet, come giustificare i costi dell’Università? Solo se i corsi universitari e i professori passano qualcosa di più: un’interazione con gli studenti su casi concreti in cui gli studenti imparano a mettere in pratica le loro conoscenze. Qualcosa di simile avviene già con gli internati sperimentali durante i quali gli studenti sono chiamati a lavorare in gruppi di ricerca sotto la guida di un tutore, su un problema concreto. Ma quello di cui si parla nell’articolo di Nature è qualcosa che va oltre.
La sfida, secondo l’articolo di Nature, è di abbandonare l’approccio classico: leggi questo libro e preparati a rispondere a queste domande. Oppure, segui questa procedura esperimentale e otterrai questi risultati.
Nel nuovo approccio sono gli studenti stessi che affrontando il problema devono confrontarsi tra loro, cercare soluzioni ed eventualmente riuscire o meno a raggiungere un risultato positivo. Anche un fallimento se accompagnato ad un ragionamento diventa molto istruttivo. Per gli studenti ma anche per il docente, che in questo schema è costretto ad uno sforzo superiore per immaginare le situazioni e per dare una risposta alle domande degli studenti.
Un metodo innovativo che tiene conto del fatto che le risposte alle domande nel mondo reale non vengono semplicemente dalle informazioni presenti nei libri di testo ma dalla loro interpretazione.
Esistono notevoli resistenze a questo metodo. Prima di tutto tra i docenti, perché questo tipo di insegnamento richiede uno sforzo molto maggiore sottraendo tempo all’attività di ricerca. Si tratta di un approccio che richiede di sviluppare nuove competenze, di non seguire uno schema prefissato di comunicazione della scienza ma uno schema più aperto e flessibile. E riduce la quantità di informazioni passate agli studenti. Ma in cambio questi assimilano molto di più le informazioni e soprattutto acquisiscono una maggiore capacità di utilizzarle. Il vantaggio per la società è evidente.
Le resistenze vengono anche dagli studenti che in molti casi preferiscono sapere esattamente cosa devono imparare per superare un esame.
Non credo che in Italia si sia già aperta una vera e propria discussione su questo tema.
Ma vale la pena sottolineare che il MIUR finanzia contributi annuali tesi a supportare iniziative per la diffusione della cultura scientifica. Un’opportunità per cominciare a pensare come cambiare il nostro modo di insegnare la scienza. Un modo per ridurre la possibilità che si ripetano episodi come quello di Stamina che hanno contraddistinto la società Italiana.