Con tutto quello che sta succedendo in Italia attorno al governo di Matteo Renzi, che promette improbabili riduzioni di tasse, precedentemente contestate a Silvio Berlusconi, e assiste impavido all’uso osceno delle intercettazioni disposte da una magistratura incapace di tutelarne la riservatezza quando sono penalmente irrilevanti, per cui la loro diffusione diventa funzionale solo ai processi mediatici e alle lotte politiche e di potere, Eugenio Scalfari ha ritenuto di spendere le sue energie per difendere il Senato dalla riforma che l’attende. Una riforma fortemente voluta dal presidente del Consiglio, che vorrebbe ridurre l’assemblea di Palazzo Madama da 315 a 100 esponenti, espressi dai Consigli regionali, provvisti di immunità parlamentare ma non del diritto di accordare o negare la fiducia ai governi.
In polemica persino con il suo vecchio amico Giorgio Napolitano, smanioso di vedere approvata finalmente la riforma del bicameralismo, Scalfari gli ha rimproverato di avere dimenticato il merito del Senato di avere determinato la caduta dell’ultimo governo di Berlusconi, nel 2011. Se quell’anno non ci fosse stata, secondo i ricordi scalfariani, la bocciatura senatoriale del bilancio consuntivo, non sarebbe arrivato il governo di Mario Monti. Il tanto vituperato Berlusconi sarebbe ancora a Palazzo Chigi. “E sarebbero stati trent’anni”, ha osservato Scalfari.
Non so se Napolitano abbia telefonato all’amico per contestargli l’assai arbitraria ricostruzione dei fatti. O se, a dispetto del solito puntiglio con il quale segue le polemiche che lo investono, si sia astenuto per timore di umiliare l’interlocutore. Che qualche protesta comunque deve averla ricevuta, viste le scuse che il giorno dopo ha sentito il bisogno di chiedere ai lettori.
La bocciatura del bilancio consuntivo, cioè del Rendiconto generale dello Stato, avvenne il 10 ottobre 2011 non a Palazzo Madama ma alla Camera, con 290 voti favorevoli e 290 contrari al primo articolo. Seguì due giorni dopo il rifiuto della giunta del regolamento, presieduta da Gianfranco Fini, che da un anno ormai era passato all’opposizione con i suoi fedelissimi, di considerare l’accaduto un incidente rimediabile.
Mentre gli avversari di Berlusconi, vecchi e nuovi, reclamavano la crisi richiamandosi ad un precedente del governo di Giovanni Goria, i capigruppo della maggioranza si rivolsero al capo dello Stato per segnalare l’irregolare composizione della giunta del regolamento di Montecitorio. Dove il governo, pur disponendo ancora della fiducia in aula, si trovava in minoranza per il rifiuto di Fini di sostituire un amico che aveva cambiato schieramento.
Napolitano giustamente non rimase insensibile alla protesta e autorizzò il governo, previa conferma formale della fiducia della Camera, a ripresentare il bilancio consuntivo al Senato, che il 20 ottobre l’approvò con 152 sì e 113 no. Seguì l’8 novembre l’approvazione della Camera con 308 sì, un astenuto e nessun voto contrario, essendo l’opposizione di sinistra uscita dall’aula per evitare il rischio di una bocciatura che paralizzasse il funzionamento dello Stato. Ma essa vantò una vittoria virtuale perché i 308 sì, pur sufficienti all’approvazione del Rendiconto generale, erano stati otto in meno dei 316 costituenti la maggiorana assoluta della Camera.
Su questo particolare, unito alle speculazioni finanziarie scatenatesi contro i titoli di Stato italiano e alle difficoltà nel frattempo aggravatesi nei rapporti fra il governo e gli organismi dell’Unione Europea, si innescò il meccanismo di una crisi concordata fra Napolitano e Berlusconi. Che accettò di dimettersi subito dopo l’approvazione della legge finanziaria del 2012 e di passare la mano ad un governo tecnico guidato da Mario Monti.
Il Senato, quindi, come si diceva, non c’entra per niente con la caduta di Berlusconi. C’entra invece con la decadenza di Berlusconi da parlamentare, deliberata nel 2013 per una condanna definitiva per frode fiscale. I senatori votarono a scrutinio orribilmente palese, e in applicazione retroattiva di una legge tanto controversa ch’è finita davanti alla Corte Costituzionale. Ma non è una pagina di cui vantarsi, tanto che neppure Scalfari ha ritenuto di rievocarla per difendere il diritto del Senato di rimanere praticamente com’è.