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Grexit, tutti i rischi e le illusioni di un abbandono dell’euro

L’eventuale uscita dall’euro di un Paese, ad esempio della Grecia, chiamata domenica 5 luglio ad esprimersi sul piano di restituzione del proprio debito ai creditori, potrebbe anche generare un effetto positivo sulla crescita del Paese stesso, ma nasconderebbe forti pericoli soprattutto per il mondo del lavoro. È questa la conclusione di uno studio di Riccardo Realfonzo, economista presso l’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 dal Financial Times, con il quale si denunciava l’insostenibilità dell’assetto macroeconomico attuale dell’eurozona.

LO STUDIO DI REALFONZO

In uno studio pubblicato dal prestigioso centro di ricerca economica Levy Institute, con sede a New York, l’economista keynesiano, uno dei più autorevoli critici dell’austerity, si sofferma sugli effetti di una eventuale euroexit sull’inflazione, i salari, il pil e la bilancia commerciale.
Si tratta di una ricerca che si fonda su una metodologia scientifica che permette di comprendere cosa succederebbe a seguito di un abbandono dell’euro, esaminando le esperienze delle più gravi crisi valutarie internazionali del passato, in occasione delle quali si sono verificati abbandoni degli accordi di cambio seguiti da ampie svalutazioni.

NON ESISTE PANACEA

La conclusione generale di Realfonzo è che “un’uscita dall’euro non è una panacea”. Da una parte, infatti, “l’abbandono della moneta unica, con la svalutazione che ne seguirebbe, potrebbe effettivamente riuscire ad aumentare la competitività del Paese nel breve-medio periodo”, con effetti positivi sulla crescita. Tuttavia, poco a poco, “l’inflazione tenderebbe ad erodere il vantaggio competitivo del tasso di cambio” e d’altra parte “il miglioramento della bilancia commerciale molto difficilmente porterebbe a una crescita occupazionale”.
Molto, rileva l’economista, “dipenderebbe dall’assetto del mercato del lavoro del Paese in questione, dalle politiche salariali e più in generale dalle politiche economiche che sarebbe in grado di produrre dopo l’uscita dall’euro. Nei casi in cui i salari fossero in qualche modo protetti dall’inflazione”, ad esempio, “la domanda interna potrebbe non perdere molto slancio e questo potrebbe alimentare la crescita e l’occupazione”.

I RISCHI

Al contrario, “nei casi in cui il salario non fosse protetto rispetto all’inflazione”, come mostra l’evidenza empirica ricostruita da Realfonzo, “il mercato interno ne soffrirebbe sensibilmente, con difficoltà particolari dei settori più tradizionali rivolti alla domanda interna, che sono molto rilevanti sul piano occupazionale”. In questo caso, “l’aumento delle esportazioni si tradurrebbe in profitti elevati, con una contrazione dei salari reali e soprattutto della quota salari sul pil”. L’effetto sarebbe quindi una divaricazione sensibile nella distribuzione dei redditi. Al contrario, “politiche di supporto ai salari e politiche industriali incisive potrebbero sostenere la domanda interna e creare le condizioni per una crescita strutturale di competitività”.

PRO E CONTRO

In definitiva – come già sottolineato nel “monito degli economisti” – “a meno che le politiche europee non abbandonino l’austerità” alcuni paesi potrebbero essere costretti a uscire dall’euro per riacquisire le leve delle politiche monetarie e fiscali, nella speranza di rilanciare l’economia. Ma il ritorno alla sovranità monetaria e la flessibilità del cambio, rileva Realfonzo, “non sono di per sé sufficienti ad annullare, come per incanto, i problemi causati dalla inadeguatezza dell’apparato produttivo o dalle insufficienza delle infrastrutture materiali e immateriali”.

LA LEZIONE DA APPRENDERE

“La lezione più importante che possiamo imparare dall’esperienza del passato”, conclude l’economista, è che gli opposti fanatismi (apologeti dell’euro versus demonizzatori della moneta unica) si sbagliano: i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono “molto più dalle politiche economiche che vengono fatte nell’eurozona, più che dall’euro in sé, e dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta eventualmente tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali”.

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