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La Grecia, il 4 luglio e la Costituzione europea. Pensieri (amerikani) in libertà

Premetto: chiamatele, se volete, banali coincidenze. Potete anche definire queste mie – fate pure, ci mancherebbe! – considerazioni in libertà, di quelle che agli occhi di molti lasceranno insomma il tempo che trovano. Ma questo non è e non vuole essere un pezzo politico, né tantomeno di taglio macroeconomico. Al massimo è qualcosa che affido a un “sentiment”, lasciandolo galleggiare in una dimensione indistinta tra lo storico e il filosofico, come del resto può fare – in assoluta libertà, ripeto – uno che non è seguace né del Sel né di Grillo e men che meno di Salvini. Uno che non ama di certo la Bundesbank, ma non stravede nemmeno per Tsipras sapendo bene come quell’imperiosa negazione “OKI”, il no all’Europa dell’austerità e dello spread, per parafrasare Omero “infiniti lutti addurrà agli Achei”. E non soltanto a loro.

Rimane tuttavia quel “sentiment”, e a cose così non si comanda. Io, almeno, non comando. Il fatto è che all’indomani del voto referendario in Grecia non ho potuto non pensare a quella coincidenza. E cioè alla circostanza che poche ore prima di quel fuoco d’artificio virtuale (per quelli veri, pirotecnici, mancavano i soldi) accesosi nel cielo antico che sovrasta il Partenone, al di là dell’Oceano, nel Nuovo Mondo, si erano appena spenti quelli del 4 luglio, data dell’Indipendenza americana. Celebrata come al solito tra mani sul cuore e sventolii di bandiere a stelle e strisce, inni stentorei e milioni di bottiglie di birra svuotate. Festa di popolo, insomma.

Festa sentita in modo bipartisan nella lontana Home of the Brave: senza distinzioni tra elefantini rossi e asinelli blu. E la mia memoria storica è volata a quella successione di eventi iniziata il 16 dicembre 1773 a Boston con la rivolta del tè; passata attraverso una lunga e sanguinosa guerra di libertà; perfezionata dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776 e sancita infine da una Costituzione del 15 settembre 1787 che iniziava con quelle tre semplici, ma potentissime parole: “We, the People…”, ovvero “Noi, il Popolo…”.

Rimane ancora lì, intatto da allora, quello straordinario trittico di parole scritte a svolazzi su una pergamena, preambolo di una Carta fondamentale nella quale la forza semantica si prendeva gioco della retorica vuota, oltre che dei parrucconi colonialisti seduti a Londra. E allora sono andato a rileggermi quel che veniva dietro quei puntini di sospensione: parole scritte sì da un manipolo di avvocati e da due scienziati come Franklin e Williamson, ma soprattutto da gente normale. Molti di loro erano negozianti e mediatori di terreni, agricoltori e insegnanti, artigiani e medici, gente colta e altra autodidatta. C’era perfino un prete protestante, un certo Baldwin. Ce n’erano di molto ricchi, ma anche tanti che si barcamenavano per far quadrare il bilancio di casa. C’erano nativi delle tredici colonie – con antenati venuti comunque tempo prima da “altrove” – ma diversi erano quelli scesi con le loro gambe su quelle sponde da una nave in arrivo da Inghilterra e Scozia, dall’Irlanda e perfino dall’India (Hamilton). Erano, insomma, “the People”.

E allora mi è venuta la curiosità di andarmi a cercare il preambolo della Costituzione europea, quella che inizia invece con un elenco altisonante: “Sua Maestà il Re dei Belgi, Il Presidente della Repubblica Ceca, Sua Maestà la Regina di Danimarca, Il Presidente della Repubblica Federale di Germania, Sua Altezza Reale il Granduca del Lussemburgo…” E via così, in una pomposa alternanza di cariche di vertice, di titoli reali e delle relative firme apposte in calce al Trattato di Roma del 2004. Gran nomi, titoli onorifici e sangue blu in abbondanza. Poi sarebbero venuti, senza nemmeno firmare, i banchieri e i Gran Contabili.

Il grande assente, e mi pare che manchi ancora, era proprio “the People”, il popolo europeo. Pensiamoci. Forse sarebbe opportuno ripartire proprio da lì.


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