Si fa presto a evocare e invocare “la linea della fermezza” quando le cose si mettono male e si cade nella tentazione di cavarsela solo chiedendo e mostrando i muscoli. Lo si sta facendo anche nella pasticciata, a dir poco, Unione Europea per cercare di mettere in riga o di rovesciare quell’altro grande pasticcione che è il premier greco Alexis Tsipras. Al quale qualcuno vorrebbe mussolinianamente “rompere le reni” per avere brandito e cavalcato anche il referendum, sostenuto da una maggioranza trasversale di sinistra e destra, in Grecia e fuori, contro il rigore reclamato dai creditori. Fra i quali ce ne sono di dimentichi della saggia raccomandazione che già duemila anni fa Gaio Svetonio faceva di tosare le pecore, non di scorticarle.
La fermezza peraltro presuppone che ci sia qualcuno non solo legittimato, ma anche capace di praticarla davvero, senza fare la fine che il buon Ferdinando Santi, sindacalista socialista, soleva rimproverare all’amico e compagno di partito Francesco De Martino: “Uno che resiste fino a un momento prima di cedere”, diceva ridendo a Sandro Pertini, che condivideva.
Anche quando fu rapito il povero Aldo Moro, nel 1978, democristiani, comunisti e repubblicani, avvinghiati nella maggioranza di “solidarietà nazionale” raccolta attorno a un governo interamente scudocrociato di Giulio Andreotti, opposero la fermezza ai dubbiosi. Fra i quali c’era l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, costretto pure per questo, più ancora che per una questione “morale” sollevata contro di lui anche dall’ingenuo Marco Pannella, pentitosene solo dopo una ventina d’anni, a dimettersi e a sloggiare dal Quirinale sotto una pioggia torrenziale.
La sfortunata fermezza, gestita da uno Stato colabrodo, si tradusse nell’assassinio del presidente della Dc, diversamente da quel che accadde solo tre anni dopo, quando lo Stato, sempre lo stesso, preferì trattare con le brigate rosse per salvare la vita a Ciro Cirillo, un assessore regionale campano amico di Antonio Gava. Per il cui rilascio furono pagati tre miliardi di lire e venne programmata la partecipazione della camorra, intermediaria nelle trattative, a un bel po’ di appalti e altri affari. Fu una vergogna che grida ancora vendetta.
Nessuno pretende, certo, di mettere assurdamente sullo stesso piano le Brigate rosse degli anni Settanta e Ottanta e i sapientoni rigoristi dell’Unione Europea, che fra Bruxelles e Berlino vogliono punire i greci troppo furbi e indebitati, almeno per i parametri comunitari concordati nell’ormai lontano 1992 e tradottisi in un oceano di affari per gli speculatori finanziari. Che giocano nelle Borse con i titoli del debito pubblico come i gatti con i topi.
Eppure, per quanta severità si meritino i greci, per carità, e per quanto si cerchi di trattare come un fenomeno pittoresco, o quasi, le penose file davanti ai bancomat di Atene, mobilitando le firme migliori per raccontarle, vorrà pur dire qualcosa il fatto che uno come Mario Monti, considerato dai tedeschi – ricordate? – “il genero ideale”, ha ammonito la cancelliera Angela Merkel a non sottovalutare il pericolo di provocare, con la “umiliante” e “neocoloniale” troika, “la rivolta degli spiriti, un tumulto delle anime, uno scenario drammatico per l’Europa e la Germania”.
Né vale sottovalutare, a dispetto del forte allineamento di Matteo Renzi alla durezza della Merkel, il monito levatosi da Romano Prodi, a lungo presidente della Commissione Europea fra le sue due brevi e sfortunate esperienze a Palazzo Chigi, contro il rischio che “Atene diventi la nostra Sarajevo”, dove fu purtroppo accesa la miccia della prima guerra mondiale. E tutto per rimanere praticamente incollati, sempre secondo Prodi, alla “follia” del parametro europeo del 3 per cento del deficit rispetto al prodotto interno lordo. O al parametro del 60 per cento del debito pubblico: quattro volte meno, per esempio, dei giapponesi, a lungo considerati i tedeschi dell’Asia.