I fatti. Il 29 giugno 2015 il Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente (Nucleo Operativo Ecologico di Udine), attuando un provvedimento emesso dal Tribunale penale di Gorizia, ha provveduto al sequestro preventivo di alcune aree dello stabilimento Fincantieri di Monfalcone, destinate alla selezione dei residui di lavorazione non tossici (scarti di lamiere, stridi ferrosi, parti di tubi, plastica per copertura di ambienti di lavorazione, avanzi di moquette ecc).
IL SEQUESTRO
La richiesta di sequestro rientra nell’ambito di un’indagine avviata nel maggio del 2013, ed era stata già respinta dal GIP presso il Tribunale di Gorizia, nonché da quest’ultimo Tribunale in sede di appello. Dopo l’accoglimento del successivo ricorso per Cassazione presentato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Gorizia, quest’ultimo è stato nuovamente investito della questione e questa volta ha disposto il sequestro. Indagato l’ex direttore dello stabilimento, Carlo De Marco, e con lui anche i titolari di sei aziende che lavorano nel cantiere.
GLI EFFETTI
Il gruppo quotato in Borsa ha chiuso lo stabilimento; 4.500 lavoratori, tra dipendenti Fincantieri e dell’indotto, restano a casa; bloccate le merci in arrivo; fermata la produzione (due navi per il gruppo Carnival e una per Msc), Tre commesse del valore di circa 1,8 miliardi di euro.
LE ACCUSE
Ma qual è l’accusa mossa a Fincantieri? Quella di gestire rifiuti prodotti da terzi in assenza di autorizzazione. Insomma il punto contestato è il seguente: mentre la società è autorizzata allo stoccaggio provvisorio dei suoi rifiuti non inquinanti all’interno del cantiere, secondo l’accusa dei pm pare non disponga dell’autorizzazione alla raccolta dei rifiuti di terzi che lavorano in subappalto per il gruppo. Ma il gruppo capitanato da Giuseppe Bono è a tutti gli effetti il “produttore del rifiuto” in quanto proprietario del materiale nel momento in cui lo stesso diviene tale, a seguito della sua “caratterizzazione”, dicono gli esperti del ramo.
LA PAROLA AI LEGALI
Non solo: i legali del gruppo rimarcano che le soluzioni adottate in altri Paesi membri dell’Unione europea, quindi con norme che discendono dalle stesse direttive recepite dal legislatore italiano, sono analoghe a quelle adottate nello stabilimento di Monfalcone. Le stesse soluzioni sono adottate in tutti gli stabilimenti, in Italia e all’estero, nei quali ci si avvale di imprese appaltatrici anche al di fuori del settore navalmeccanico.
L’ESEMPIO
Fa un esempio Giorgio Meletti del Fatto Quotidiano: “Quando l’operaio della ditta appaltatrice taglia la moquette da incollare sul pavimento della nave, a chi appartiene lo scarto? Fincantieri sostiene che lo scarto è suo, come sua è la moquette e tutto il materiale affidato alla ditta appaltatrice per il montaggio. La pubblica accusa sostiene invece che si tratta di un rifiuto prodotto dalla ditta appaltatrice, quindi stoccato illegalmente”.
LA POSIZIONE DELL’AZIENDA
Incredibile, ma vero. Siamo alla paranoia giudiziaria, come l’ha definita Umberto Minopoli su Formiche.net. Ma continuiamo. Dicono i legali che per conto dell’azienda stanno seguendo il caso: le operazioni di controllo e suddivisione dei residui di lavorazione, per ovvi motivi, non possono essere effettuate a bordo delle navi: sono perciò svolte nelle aree destinate (sempre all’interno dello stabilimento) e appositamente apprestate; in tali aree, che sono adeguatamente attrezzate, i materiali eccedenti vengono raccolti, opportunamente raggruppati e classificati in modo corretto, per poi essere inviati a smaltimento. Eppure tutte queste procedure, che secondo l’azienda soddisfano i “requisiti di sostenibilità e fattibilità tecnica” previsti dalla Direttiva CE 2008/98) per i magistrati non vanno bene.
IL GOVERNO AL LAVORO
Che fare? Per evitare che un campione nazionale, quotato in Borsa, che ha commesse internazionali e che è un fiore all’occhiello dell’industria nazionale sia travolto da queste paranoie giudiziarie anti industrialiste, il governo – come ha accennato ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Luca Lotti – sta pensando a un decreto a chiarire che tutti i materiali derivanti dalle attività lavorative prodotti da appaltatori, subappaltatori e lavoratori autonomi nell’ambito delle attività svolte all’interno di uno stabilimento industriale per la realizzazione di un bene si considerino prodotti dal soggetto committente che ha la disponibilità giuridica dell’area e nel cui interesse sono svolte le lavorazioni. Un decreto non ad hoc ma erga omnes.
LE REAZIONI
Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, commentando i casi di Taranto e Monfalcone ha parlato di una “manina” che ciclicamente opera nell’ombra per manomettere la competitività del nostro sistema industriale e azzoppare le imprese migliori. La Fiom landiniana, rompendo il fronte sindacale, ha replicato duramente invitando il governo “a condannare con fermezza le posizioni della Confindustria” e sostenendo pienamente l’intervento a gamba tesa dei giudici goriziani.
IL COMMENTO DEL CORRIERE
“Forse anche in questo scambio ravvicinato di colpi c’è una traccia da approfondire – ha scritto Dario Di Vico del Corriere della Sera – Non è infrequente, infatti, che si palesi un asse culturale, un idem sentire tra magistratura e sindacato radicale. Dietro c’è l’idea che il diritto debba riequilibrare l’azione «distruttrice» del mercato e che possa addirittura svolgere una funzione di supplenza laddove la rappresentanza dal basso è debole o è sconfitta. È chiaro che con questi presupposti la lotta al trattamento dei rifiuti da parte delle imprese o la stessa difesa dei diritti ambientali si prestino ad essere usati a senso unico: colpire l’eterna protervia degli imprenditori”.
LA TRISTE MORALE
Conclusione. Possiamo pure inveire (ed è giusto) contro le follie normative e vincolistiche dell’Europa. Si possono (e si devono) criticare i sindacalismi antagonistici alla Maurizio Landini che da tempo cerca di speronare Fincantieri. Per non parlare di una magistratura – come scrive oggi Paolo Bricco del Sole 24 Ore parlando anche del caso Ilva – che “sembra non considerare quanto ogni sua scelta influenzi il funzionamento delle imprese”. Ma se la congerie normativa dell’Italia consente a qualche tutore della legge di azzoppare gruppi del rilievo strategico nazionale come Fincantieri si deve trarre la malinconica conclusione che questo è un Paese con un ambiente politico, culturale e normativo anti impresa.