Sono ancora troppo fioche le luci sul rapimento dei tecnici italiani in Libia per illuminare a dovere quanto accaduto. Diverse le ipotesi ancora in campo: dai simpatizzanti dei drappi neri dell’Isis ai semplici criminali, passando per milizie vicine al governo di Tobruk, come Jaish Al Qabail, o a quello di Tripoli, come Fajr Libia.
Quel che è certo, invece, è che nel guazzabuglio nordafricano non ci sono punti fermi né veri alleati e che la situazione è più fluida e al tempo stesso avviluppata che mai.
RICONCILIAZIONE DIFFICILE
“Alleanze problematiche, se non impossibili, di differenti ipotesi strategiche e alleanze esterne”, le definisce oggi Renzo Guolo su Repubblica. Tali, spiega, “da rendere assai fragile, anche se andasse in porto, il tentativo di formare quel governo di unità nazionale sponsorizzato da Nazioni Unite ed Ue”.
IL PROBLEMA SICUREZZA
A questo, aggiunge Carlo Bonini, sempre su Repubblica, stando a fonti interne si sommerebbe poi la rabbia del governo per “le modalità con cui il sequestro è avvenuto”, nello specifico per la presunta “incredibile leggerezza con cui aziende italiane strategiche impegnate in un quadrante di mondo dove l’Italia non ha più un’ambasciata e dove i protocolli di sicurezza devono essere stringenti, non hanno evidentemente saputo proteggere i propri dipendenti integrando le proprie procedure”.
LE ACCUSE RECIPROCHE
La vicenda dei dipendenti italiani della parmense Bonatti, contractor internazionale per l’industria petrolifera, rappresenta una buona lente attraverso la quale leggere le distanze e il caos imperanti tra le due fazioni, che si accusano l’un l’altra per quanto accaduto. Da un lato, sottolinea il quotidiano diretto da Ezio Mauro, c’è “il governo tripolino di Omar al Hassi, esponente dei Fratelli musulmani, appoggiato dalla Turchia e dal Qatar” e sostenuto dagli ex ribelli di Misurata, che contando sulla forza mediatica di Al Jazeera ha detto ieri che “gli autori del sequestro potrebbero essere membri del Jaish al Qabail, L’esercito delle Tribù, una delle 23 milizie tribali del Consiglio militare rivoluzionario di Zintan, ostili a quelle si Albia libica (Fajr) che sostengono Tripoli”. Per il governo di Tobruk, quello internazionalmente riconosciuto e guidato da Al Thani, appoggiato da Egitto e Emirati Arabi, “la cattura sarebbe, invece, opera delle milizie Fajr. Obiettivo: fare pressione sul governo italiano perché non chieda sanzioni contro il governo di Tripoli che non ha sottoscritto l’intesa negoziata dall’inviato Onu Bernardino León e accettata, invece, da Tobruk e alcune tribù. Ipotesi, questa, ritenuta infondata dalla Farnesina”.
LA VICINANZA A TOBRUK
Oppure, come ipotizza sul Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi, tutto nasce dal fatto che l’Italia “ultimamente si è espressa più favorevolmente del solito per il governo di Tobruk, che a sua volta è molto vicino alla milizia berbera di Zintan. Il problema è che da almeno due anni Zuara e Zintan sono in contrasto. E con i loro vari gruppi armati”.
Una teoria come le altre, come quella che porta a fazioni vicine allo Stato Islamico o a bande di comuni criminali.
LO SPETTRO DELL’ISIS
In particolare, sono gli uomini di al Baghdadi a preoccupare il nostro Paese in questo momento. Ieri, facendo il punto sullo strategico gasdotto Eni di Mellitah a servizio del quale lavoravano gli uomini della Bonatti, Formiche.net aveva spiegato che anche se dinamica e autori del rapimento degli italiani sono ancora da chiarire, il pericolo jihadista è dietro l’angolo. Dall’inizio del conflitto libico, per due volte il Cane a Sei zampe ha deciso di fermare il metanodotto e fare rientrare il proprio personale in Italia. Un rischio che sembra aumentare, dopo il nuovo messaggio dello Stato Islamico che – ha rimarcato il quotidiano Al Sharq al Awsat citato da Askanews – punta ad attirare giovani combattenti promettendo illusoria ricchezza con la “Jihad petrolifera”. In Libia, d’altronde, nei pressi di Sirte, controllata dai drappi neri, si trova il 60% delle scorte di greggio del Paese nordafricano. Petrolio che fa gola, ma che a differenza di quanto accade in Iraq o Siria difficilmente potrà poi essere messo sul mercato e che verosimilmente ha come unica funzione quella di fare proseliti e reclutare forze fresche col miraggio di facili guadagni. “Da oltre un anno i suoi tagliagole – chiosa il Corsera – si sono progressivamente impadroniti di pezzi sempre più ampi del Paese. Hanno cominciato dal deserto, la Cirenaica e Derna (dove ultimamente sono stati scacciati da milizie filo Al Qaeda), quindi sono entrati a Sirte, controllano il 60 per cento di Bengasi e mirano alle periferie di Tripoli”.
LE ALTRE DIVISIONI
Ma nonostante questa minaccia, rileva ancora Repubblica, “Tripoli e Tobruk restano lontane. Anche perché il tentativo di Leon ha provocato divisioni in entrambi gli schieramenti. Quello di Tobruk è alle prese con la scomoda presenza del generale Haftar, ormai in rotta di collisione con il premier Al Thani, accusato pubblicamente dal capo delle forze armate di corruzione e malgoverno. Haftar si e dettò contrario alla tregua siglata dalle milizie di Zintan con alcune tribù legate a Fajir Libia che hanno sottoscritto il documento e Leon si è scontrato anche con altri alleati tribali, in particolare con le tribù Obeidi e Barasa, su questioni di natura militare. La tribù degli Obeidi è la più numerosa e potente della Cirenaica e ha una tradizione di prossimità con il potere sin dai tempi della Senussia”.
Il negoziato, però, “ha prodotto divisioni anche sul fronte opposto, con la nascita di una nuova forza, Sumud o Fronte della Salvezza, risultato delle tensioni nella coalizione Fajr Libia. Formata da Saleh Badi, influente militare e politico che rifiuta ogni negoziato con Tobruk, Sumud riunisce sette brigate di Misurata più molte di quelle di Tripoli. Sono queste fratture, legate agli uomini forti dei due schieramenti – conclude Guolo -, che impediscono la nascita di quel governo di unità che pare l’unico antidoto allo jihadismo”.
LO SCENARIO INTERNAZIONALE
Questo il complesso quadro nazionale. Sullo sfondo, invece, racconta oggi Alberto Negri sul Sole 24 Ore, non va sottovalutata l’altrettanto ingarbugliata matassa figlia della guerra in Libia e nella quale s’intrecciano i fili di Londra, Parigi e Roma e dell’ambigua strategia egiziana. “Francesi e inglesi – scrive – stanno con Tobruk perché hanno forti commesse militari con l’Egitto e gli Stati del Golfo alleati del Cairo. Oltre alla prospettiva di ottenere contratti petroliferi in Cirenaica che detiene il 75% delle riserve libiche”. Sull’Egitto, corteggiato insistentemente dall’Italia, c’è però un equivoco, crede Negri: “Il Cairo non punta a stabilizzare la Libia, ma a controllare la Cirenaica”. Ciò danneggerebbe in primo luogo il nostro Paese, perché se da un lato “gli interessi italiani, specie quelli petroliferi e del gas, sono quasi tutti in Tripolitania, da dove partono i barconi con i migranti”, dall’altro “Tobruk protesta contro Tunisi per la barriera anti terrorismo al confine: se possibile in Cirenaica vorrebbero liberarsi dei loro terroristi esportandoli dall’altra parte, a Ovest, non dal confine egiziano”. Il quotidiano confindustriale si chiede dunque come possa il Cairo difendere le stesse posizioni del nostro Paese. “Crediamo di influenzare al-SIsi, ma piuttosto ne siamo influenzati. Certo, rileva Negri, “se gli egiziani… ci aiutano a riportare a casa i quattro italiani rapiti tanto meglio ma questa… è una vicenda intricata dove si intersecano partite diverse”.