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Isis, ecco cosa cela la lotta fra sciiti e sunniti

Sul futuro del Medio Oriente domina una crescente incertezza, di recente aumentata dalle indiscrezioni su di un possibile intervento turco nelle province siriane nordoccidentali (a Nord di Aleppo e di Iblid). Ad Ankara è stata più volte discussa la creazione di una fascia cuscinetto a Sud del confine con la Siria. Servirebbe a sistemare parte dei rifugiati siriani e a impedire che le unità curde di Protezione del Popolo, che incorporano numerosi combattenti del PKK, estendano il loro controllo all’intero confine turco-siriano.

Per questo i curdi si sono dichiarati fermamente contrari ad un intervento di Ankara in Siria. La Turchia, dal canto suo, ha dichiarato che non accetterà mai la costituzione di uno Stato o regione autonoma curda in Siria. Teme il contagio autonomista curdo in Turchia. Un intervento turco cambierebbe le carte in gioco nel Medio Oriente. Lo ritengo per il momento improbabile, data la perdita della maggioranza assoluta dell’AKP. Aumenterebbe le tensioni con l’Iran. Il Medio Oriente diventerebbe area di contesa fra persiani e ottomani.

Inoltre, un intervento della Turchia in Siria ne accelererebbe l’avvicinamento all’Arabia Saudita. Ankara prenderebbe la leadership di un blocco sunnita. Il futuro del Medio Oriente diverrebbe più chiaro. Lo Stato Islamico sarebbe distrutto. Perdendo il territorio che oggi controlla, il Califfato collasserebbe. L’Occidente, e anche la Russia, preoccupata dell’estensione della presenza dell’ISIS nel Caucaso settentrionale, sosterrebbero il coinvolgimento diretto della Turchia negli equilibri mediorientali.

E’ comunque improbabile che, anche senza l’intervento diretto curdo, il Califfato sopravviva a lungo. Deve fronteggiare l’Iran, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Una sua vittoria richiederebbe l’improbabile implosione dell’Arabia Saudita. Ma se curdi, iracheni e gruppi più moderati siriani lo sconfiggessero, quale sarebbe la nuova mappa geopolitica del Medio Oriente? Beninteso dipenderebbe da chi sarà il vincitore non solo delle milizie dell’ISIS, ma anche dell’inevitabile lotta fra i vari vincitori locali.

Lo scenario più tranquillizzante sarebbe la vittoria della coalizione a guida americana oppure, come ha recentemente suggerito Fareed Zakaria, delle dinastie sunnite sostenute dalla Turchia ed dall’Egitto.
Il Medio Oriente non tornerà comunque a essere quello di prima. La sua mappa geopolitica è destinata a mutare. Gli Stati creati nella “Mezzaluna Fertile” dalla Gran Bretagna e dalla Francia alla fine della Prima Guerra Mondiale, si sono indeboliti. Non sono più in grado di mantenere uniti i clan, le tribù e i gruppi etnici e religiosi che li compongono. Per inciso, gli accordi Sykes-Picot sono contestati oggi anche da Erdogan e dai fautori del neo-ottomanesimo turco.

Nessuna delle grandi potenze regionali è in condizioni di aver la meglio e di unificare la regione sotto un unico centro di potere. Di creare cioè un “grande Stato arabo”, come quello promesso da Londra agli insorti anti-ottomani nel primo conflitto mondiale. Lo “sbriciolamento” degli Stati è facilitato dalla tecnologia militare attuale che consente a piccoli gruppi o a individui singoli di dotarsi di una grande potenza distruttiva.
Non scompariranno l’Islam politico né il radicalismo base del terrorismo di matrice islamica. L’“ideologia teologica” dell’ISIS è alla base dell’attrazione che esercita sui giovani musulmani. Essa non scomparirà, anche se i suoi attuali sostenitori fossero eliminati. Non è da escludere che all’ISIS succeda un nuovo movimento radicale, in modo simile a quello con cui esso è stato originato da al-Qaeda.

La futura mappa geopolitica vedrà forse la scomparsa di taluni Stati. I conflitti in Siria, Iraq e Libano hanno distrutto la loro coesione. La diminuzione dell’influenza occidentale ne ha aumentato la frammentazione. Non vi è forza che possa riportare sotto l’autorità centrale degli Stati i vari gruppi in lotta fra loro. Le violenze sono state troppe per sperare in riconciliazioni nazionali. Numerosi conflitti domineranno il futuro del Medio Oriente.

E allora? Molti sono portati a ridurre la dinamica geopolitica della regione allo scontro fra sunniti e sciiti, al fallimento della primavera araba e all’incapacità degli Stati creati dalla Gran Bretagna e dalla Francia, alla fine del primo conflitto mondiale, di trasformarsi in Stati nazionali. Sono rimasti tribali, con la lealtà della popolazione che va al gruppo sub-nazionale (clanico, etnico e religioso) di appartenenza. Con l’indebolimento degli Stati, sono emerse le forze profonde esistenti nelle varie società e i loro conflitti di potere.

Il contrasto fra sciiti e sunniti non è di natura teologica, anche se il clero sciita ha sempre posseduto un maggiore potere politico rispetto ai dottori della legge sunniti, e se le dinastie del Golfo continuano a sentirsi minacciate dalla rivoluzione di Khomeini. Solo con essa, la differenza fra le due anime dell’Islam esistente da secoli, è divenuta geopoliticamente rilevante. I sauditi – custodi dei luoghi sacri dell’Islam – si sentono sfidati dall’appello all’unità dell’Islam fatto dal regime degli Ayatollah.

Sospettano che Teheran intenda circondarli e acquisire l’egemonia nel Golfo, mobilitando anche le consistenti minoranze sciite della Penisola Arabica. Per reazione hanno accentuato i loro legami con la setta rigorista wahhabita, che già era un pilastro portante della dinastia. L’attacco americano all’Iraq di Saddam Hussein ha eliminato il contrappeso tradizionale all’Iran. Gli squilibri sono stati aumentati dal rapido ritiro delle forze americane dall’Iraq nel 2011 e dal timore delle dinastie del Golfo di un accordo fra gli USA e l’Iran.

I sauditi non temono tanto la “bomba” iraniana, quanto il fatto che, con l’eliminazione delle sanzioni, Teheran potrebbe in poco tempo aumentare il proprio PIL di oltre 100 miliardi di dollari. Potrebbe quindi rafforzare la sua influenza in tutta la penisola arabica, dagli Houthi dello Yemen, all’Hezbollah in Libano e dalla Siria all’Iraq. Per questo la loro lotta contro lo Stato Islamico è limitata dall’interesse di utilizzarlo contro l’Iran e i suoi alleati.

Non si vede via d’uscita a tale situazione di frammentazione. Finito il nazionalismo arabo e scomparso il partito Baath, l’unico fattore di aggregazione rimane l’Islam. Non è sufficiente data la sua divisione in sette contrapposte. La proposta del Califfato era di costituire un impero transfrontaliero e di trasformare l’Islam, nella rigorosa interpretazione datagli da al-Baghdadi, nel paradigma ordinatore della frammentazione tribale. A parte la flessibilità non solo militare ma anche politica dimostrata, le grandi vittorie e l’attrazione che il Califfato esercita, i suoi successi sono proprio dovuti al fatto che propone un modello corrispondente a quanto viene percepito necessario nell’immaginario collettivo di un gran numero di popoli della regione.

La religione è un fattore che serve a creare consenso, a mobilitare le masse e a permettere le guerre per procura fra l’Arabia Saudita e l’Iran, combattute in Iraq, Siria e Libano. E’ probabile che, dopo l’eliminazione dello Stato Islamico, i conflitti in corso continueranno, assumendo sempre più caratteristiche settarie e confessionali. Le dispute religiose saranno sempre più chiaramente semplici foglie di fico per nascondere la loro vera natura, che è di lotta per l’influenza e il potere. Una lotta cioè geopolitica, non teologica.


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