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Ormai seguire le vicende dei “ribelli siriani addestrati dagli USA” è questione di dedizione

Perugia ─ Cinquantaquattro. Sarebbero 54 in tutto, i ribelli siriani addestrati in Turchia dagli advisor militari americani, almeno secondo quanto scritto dal New York Times. Un numero che rappresenta il valore quantitativo della macchietta della storia “ribelli-moderati-addestrati”. Cinquantaquattro non è un esercito, non è una brigata, non è niente ─ a meno che non siano elementi di un’unità speciale, ma è inutile dire che così non è, quelle richiedono anni e anni di training, investimenti, armi, logistica, preparazione, che i ribelli nemmeno si sognano. Questi sono una sorta di armata Brancaleone, reflui di selezioni rigidissime (quanto giuste), licenziamenti di elementi poco chiari (altrettanto giusti, per carità), e poi scarso appeal del progetto ─ la poca convinzione dei promotori di Washington è passata e ha scoraggiato i possibili avventori, è ovvio ─ e qualche diserzione.

Giovedì l’episodio finora più imbarazzante, che rende il tutto quasi comico ─ se non fosse triste e senza uscita la via. Il leader del gruppo di ribelli, Nadeem Hassan, sarebbe stato rapito insieme al suo vice vicino e altri compagni al confine turco: non dallo Stato islamico, il nemico contro cui si dovrebbero scagliare, ma dalla Jabhat al Nusra, filiale qaedista siriana, che spesso ha appoggiato sul campo le formazioni ribelli sia contro l’IS (da cui è divisa da una diaspora ideologica) sia contro il governo siriano. Ai tempi in cui il Pentagono annunciò ufficialmente il programma di addestramento per alcuni ribelli (molti mesi fa), Hassan contribuì a trovare circa 1200 aderenti: di questi soltanto 125 superarono lo screening per accedere al primo corso, e oltre la metà furono poi buttati fuori o uscirono volontariamente. Quando i funzionari di Washington (e quelli giordani e turchi che compongono i referenti locali del programma di addestramento) parlano di “ribelli addestrati”, si riferiscono al gruppo di Hassan, noto sotto il nome di “Divisione 30”.

La Divisione 30 si affianca a un altro programma ─ questo ufficialmente coperto da segreto ma in realtà sono anni che se ne parla ─ con cui la Cia ha addestrato alcune fazioni ribelli per combattere le forze di Bashar al Assad. Nota importante: “i ribelli del Pentagono” non hanno l’esercito governativo siriano tra gli obiettivi, ma devono combattere soltanto contro l’IS. Questa circostanza è alla base di diversi malumori tra le formazioni insorte, che avevano iniziato la loro lotta come una rivoluzione ─ che ormai s’è persa nel caos ─ per rovesciare il regime di Damasco, ed è alla base anche delle scarse adesioni al programma. Notare pure che la gran parte di questi ribelli, appartengono ai primi gruppi messi in armi contro il regime, dunque la loro lotta ha assunto i contorno della storicità; e pur non condividendo l’IS, non sono disposti a rinunciare alla loro causa iniziale battendosi esclusivamente contro il Califfo: il loro obiettivo, che ormai pare utopico, è una Siria libera (da tutti). Mettersi a combattere sul suolo siriano come “ribelli moderati US-backed”, invece in questo momento significa scontrarsi contro gli uomini del Califfato, contro i lealisti (che inquadrano in questi gruppi gli obiettivi preferiti) e pure contro formazioni islamiste jihadiste come al Nusra. I primi di marzo JN ha imposto la dissoluzione al gruppo Harakat Hazm, la realtà formata dal programma della Cia: alcuni leader sono stati sequestrati e le armi ─ compresi missili anticarro Tow ─ trafugate. Fu un’altra dura batosta per Washington.

Scrive il NyTimes, che il problema comune di entrambi i programmi è piuttosto chiaro: lavorare con gli americani ti rende un bersaglio facile.

Gli uomini di Hassan provengono per gran parte dalla striscia di 68 miglia del territorio siriano al confine con la Turchia che Ankara vorrebbe costituita in una buffer-zone “IS-Free”. Sembra che a questa sia vincolato l’impegno turco contro l’IS scattato in questi giorni, ma gli americani continuano ad essere vaghi, anche perché temono che questo possa portarli a dover reagire a possibili attacchi nell’area, non solo da parte di Baghdadi ma anche di Assad. (A proposito di questo, Hassan, intervistato dal NyTimes prima del rapimento, aveva detto che col suo gruppo, altro che 68 miglia, sarebbe riuscito a difendere si e no 200 metri. In quell’occasione si era anche lamentato del ricevere poca assistenza effettiva sul campo da parte della logistica americana).

In questo momento pare ci sono più di mille uomini che sono pronti a sottoporsi alle procedure di selezione americane: vengono da Deir el Zor, città petrolifera dell’est siriano, dove il governo non è quasi più presente e il Califfo ha preso il controllo dei territorio con violenza, massacrando i locali. È chiaro perché questi vogliano sposare il progetto americano. Il segretario alla Difesa statunitense Ashton Carter, ammettendo implicitamente la lentezza del programma (che negli atti significa anche inconsistenza), parla di un arretrato totale di oltre 7000 elementi da valutare. Ora la notizia del rapimento di Hassan è un ulteriore freno: al NyTimes il leader ribelle aveva detto di aver chiesto ai funzionari americani se avevano intenzione di proteggerli completamente. Il suo rapimento, se vero, è una risposta.

@danemblog

(Foto: archivio Formiche)

 

 

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