“La presa della bastìa”, come l’ha subito sarcasticamente ribattezzata un #hastag, conferma che Mamma Rai fa sempre gola. Gli albergatori di Bastia Umbria non avevano mai visto, fino a pochi giorni fa, tante gente tutta insieme: 2800 concorrenti per 100 posti nella tv (ancora) di Stato. Un concorsone invece che tante chiamate dirette attraverso i soliti canali della politica e dei circuiti dei soliti noti. Certo, come tutto quello che riguarda viale Mazzini, non sono mancate le polemiche e le accuse. Resta il fatto che una grandissima quantità di giornalisti – anche già assunti in altre testate – ha voluto mettersi alla prova per entrare in Rai. Tutti la criticano, ma tutti la vogliono.
Meno visibile ma non meno competitiva la ressa, anzi la rissa, attorno alle nomine che il premier Matteo Renzi vuol varare entro l’estate, dopo la riforma se possibile ma anche prima. Via la presidente Anna Maria Tarantola e via il direttore generale Luigi Gubitosi – sarebbe la direzione di marcia renziana – e dentro un consiglio d’amministrazione “vero” e non costruito col manuale Cencelli e un amministratore delegato con Pieni Poteri. Ma chi sarà questo signor Pieni Poteri? Lo decideranno gli head-hunter? Un concorsone? O, come spesso è accaduto finora, lo sceglierà Renzi e i suoi del Giglio magico di stretta osservanza a Palazzo Chigi?
Finora – dicono gli addetti ai lavori anche in casa Renzi – in Rai non ha mai davvero comandato nessuno. E allora, preventivamente, giù botte. Candidature e botte. Non tanto sui candidati interni: quelli se ne stanno in trincea, l’un contro l’altro armati. Sono i “papabili” esterni ad essere impallinati al primo frullio d’ali: in primis Vincenzo Novari, manager leopoldiano dei telefoni di 3 Italia; ma anche Antonio Campo Dall’Orto, eternamente giovane ex-capo di Mtv Italia e ora nel Cda di Poste, oppure Marinella Soldi, brava e non troppo nota capa di Discovery Italia (beneficiaria di una copertina del mensile cult “Prima Comunicazione”). Ci sarebbe quindi – e come potrebbe mancare altrimenti? – Andrea Guerra, il “pibe de oro” di Renzi, buono per ogni evenienza: per un consiglio, un suggerimento, e magari prossimamente per un consiglio di amministrazione.
Oppure ancora Andrea Scrosati, il capo dei programmi di Sky, che in un anno ha triplicato le autoproduzioni con risultati molto brillanti: figuriamoci quanto sarebbero contenti i centinaia di fornitori Rai.
Appena se ne parla, di questi cinque o di altri, se ne sibilano peste e corna: già hanno dovuto fare i conti con Gubitosi, un manager poco incline alle vecchie abitudini. Cos’avrà mai questa Rai per fare così tanto gola e suscitare così tante difese preventive?
Che domande: la Rai ha ed è tanta roba. Viale Mazzini ha 1.581 giornalisti a tempo indeterminato, che per metà guadagnano oltre 105.000 euro l’anno e sono almeno capiservizio (279). I dirigenti giornalisti (capiredattori o vicedirettori e direttori) sono 303 e prendono almeno 120 mila, fino a 240 mila (ce n’erano sei che col decreto sul tetto retributivo degli statali sono stati tirati giù dagli oltre 300 mila ante-Renzi). Ci sono poi 64 inviati speciali (126.000 euro medi ciascuno), e 150 vicecapiredattori (solo loro costano 18 milioni all’anno), 688 redattori ordinari (busta media 85 mila), 262 dirigenti non giornalisti, altri 13 assunti da Gubitosi che ha anche fatto 35 promozioni. Il totale del personale extra-giornalistico è di 8.501 dipendenti: 2.466 impiegati, 470 funzionari semplici, 293 superiori e poi 11 medici, 108 orchestrali, 1.537 impiegati di produzione, 1.624 addetti alla regia, 870 operai e 142 tecnici. Poi 1360 lavoratori a tempo determinato (tra 262 giornalisti e 349 aiuti registi). E poi i precari.
Ci sono poi gli appalti Rai, i lavori che l’azienda commissiona all’esterno, dalle umili pulizie alle prestigiose produzioni di fiction e varietà: un capitolo dal valore di centinaia di milioni su cui scandaglia non solo l’Antitrust. In media, il 35% delle produzioni Rai, nonostante i 12 mila dipendenti, viene prodotta all’esterno.
Per questo in ambienti governativi ci si chiede: è verosimile che possa riuscirci un qualsiasi nuovo capo proveniente dall’interno? Da qui l’ostracismo contro gli outsider, si bisbiglia. Qualche esempio fra i tanti che è possibile cogliere fra i tavolini dei celebri bar nella zona di piazza Mazzini. La Soldi? Brava, sì, ma a gestire una tv da 300 dipendenti, totale estraneità alle delicate logiche della tv pubblica. E ha rinnovato poche settimane fa il suo contratto d’oro con Discovery. Scrosati è più abituato ai grandi numeri ma distante dalle news, e mai stato finora un capo-azienda. Campo Dall’Orto? Creativo, sì, ma la Rai è solo musica?
Cattiverie, ma ben poca cosa rispetto alle mine che hanno colpito il candidato numero uno, stando ai gossip romani, Vincenzo Novari, attuale amministratore delegato di 3 Italia. Genovese, 55 anni, uomo di marketing, alla testa di un’azienda con 10 milioni di clienti, 2 miliardi di fatturato, 3000 dipendenti interni e 7000 nell’indotto. Appassionato di tv da sempre, dicono i ben informati. Ha fatto di La3 una “serra” creativa di formattini digitali da telefonino. Politicamente trasversale (renziano ma non troppo), mondano ma senza eccessi, rappresenta un facile bersaglio. Chi lo accusa di aver piazzato la compagna in una trasmissione televisiva (Rai, ovviamente), chi dice che sia troppo sensibile al fascino femminile, chi ne contesta i risultati di manager. Tutto imbarazzantemente pretestuoso.
A guardarla da fuori sembra che più si è lontani dalla vecchia logica della vecchia tv pubblica, più si è oggetto di strali. E’ la paura del mercato e delle sue ferree regole. La cultura del sano mercato può più di mille bravissimi Cantone. I titolari delle enormi rendite di posizione lo sanno bene. Per questo, c’è la paura che qualcuno, da fuori, possa rompere le uova nel paniere degli sprechi Rai ancora più di quanto non abbia potuto Gubitosi (in quanto privo di supporto vero da parte del governo). Un amministratore delegato con pieni poteri è quindi lo spauracchio ed ogni possibile e credibile candidato si trasforma in carne da macello. “La presa della Bastia” in confronto è una passeggiata.