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Renzi, Legnini e il contagioso festival delle intercettazioni pubblicate

Matteo Renzi, di cui è stata annunciata dai fedelissimi la contrarietà ad una “stretta” nella disciplina delle intercettazioni giudiziarie, pur avendo appena subito notevoli danni d’immagine dalla diffusione dei pesanti giudizi sull’allora presidente del Consiglio Enrico Letta confidati telefonicamente nel gennaio dell’anno scorso al generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, non è il solo ad avere dato l’impressione di una resa agli abusi. E della paura di sfidare con una seria modifica delle disposizioni in vigore quanti da anni ne fanno un uso troppo disinvolto, per cui finiscono depositati, per arrivare infine ai giornali, anche documenti “penalmente non rilevanti”, come si dice in gergo tecnico, ma utilissimi ai processi mediatici. Che sostituiscono sempre più spesso il dibattito politico, o supportano lotte di potere di ogni tipo: fra partiti, correnti, leader, boiardi di Stato, alti ufficiali e quant’altri.

A Renzi si è unito, nolente o volente, il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Legnini, ex parlamentare ed ex sottosegretario del Partito Democratico, fortemente appoggiato dallo stesso Renzi per arrivare un anno fa al vertice dell’organo di autogoverno delle toghe. Anche lui, pur consapevole della gravità di quanto è accaduto con il deposito e la diffusione della telefonata fra lo stesso Renzi e il generale Adinolfi, ma anche delle chiacchierate conviviali fra l’attuale sindaco renziano di Firenze Dario Nardella ed amici sulla presunta ricattabilità dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, ha dichiarato che per evitare inconvenienti basta applicare “con scrupolo” il codice di procedura penale. Peccato però che non si riesca, o non si voglia farlo, vista la frequenza con la quale intercettazioni irrilevanti ai fini delle indagini per le quali sono state disposte finiscono a disposizione di studi legali e redazioni di giornali. E’ una frequenza pari solo a quella con la quale i responsabili degli abusi restano ignoti e impuniti.

A dire il vero, pur convinto che bastino e avanzino le norme in vigore per garantire l’uso corretto delle intercettazioni telefoniche e ambientali, Legnini ha assicurato, bontà sua, la disponibilità a “rimettersi alle valutazioni finali del legislatore”, cioè delle Camere, e dei politici che le compongono. Ma è una disponibilità assai indebolita dal sostanziale incoraggiamento ai politici e ai partiti contrari a modificare le disposizioni in vigore, che potranno avvalersi proprio del giudizio di Legnini per sostenere anch’essi che la disciplina attuale sia sufficiente. E alzare le solite barricate contro qualsiasi intervento che possa solo sembrare una stretta o un bavaglio.

Legnini, di fatto presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, agendo su delega del presidente effettivo, che è il capo dello Stato, ha inoltre annunciato di essere pronto ad attivarsi per l’assunzione di provvedimenti disciplinari se dovessero emergere responsabilità dalle indagini in corso presso la Procura della Repubblica di Napoli e la Procura Generale della Cassazione sulla cattiva gestione dei fascicoli giudiziari contenenti le intercettazioni di Renzi ed amici finite sui giornali. Ma egli ha contemporaneamente aperto all’ipotesi inquietante che a compiere abusi non siano stati i magistrati per le cui casseforti sono passati quei fascicoli. Magistrati che pertanto sarebbero stati anch’essi danneggiati ingiustamente da mani, manine e manone intervenute sulle carte sino a manipolarle, per esempio rimuovendo gli omissis originariamente apportati ai passaggi delle intercettazioni irrilevanti per le indagini e ripristinandone l’integralità.

Non si sa dove, come e quando Legnini abbia potuto ricavare questa impressione o coltivare questo sospetto, parlandone pure con il Fatto Quotidiano, cioè il giornale che per primo ha potuto disporre delle intercettazioni di Renzi e amici e diffonderne il contenuto. Ma se ci sono davvero uffici giudiziari nei quali i magistrati titolari non sono gli unici o i primi a doverne rispondere, tanto vale chiuderli e rinunciare semplicemente all’amministrazione della giustizia. Alla quale basterebbero e avanzerebbero gli untori di manzoniana memoria, non importa in che modo travestiti, se da agenti o ufficiali di polizia giudiziaria, impiegati, avvocati e, purtroppo, anche giornalisti. Che costituiscono, in ordine di tempo, l’ultimo anello della catena, ma il più decisivo e paradossalmente obbligato, non foss’altro dalle regole della concorrenza, di fronte a notizie di obiettivo interesse pubblico.


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