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Tutte le pene romane di Renzi e Orfini

C’è qualcuno a Roma, di nome Matteo, che sta messo politicamente peggio del sindaco Ignazio Marino. Ma non è Renzi, per quanto il presidente del Consiglio, e segretario del suo partito, non sia riuscito a fargli fare nessuna delle due cose chiestegli pubblicamente, e più volte: dimostrare di sapere governare una città che fa ormai notizia nel mondo per i suoi disservizi, e per le indagini giudiziarie di “Mafia Capitale”, o dimettersi per consentire ai romani di votare l’anno prossimo per il rinnovo della loro amministrazione, come faranno i milanesi, i genovesi, i bolognesi, i napoletani ed altri ancora, in un turno elettorale di rilevante importanza politica.

Peggio di Marino, paragonatosi curiosamente ad un bravo chirurgo che ha eseguito nei tempi prescritti un difficile trapianto di fegato ma non è ancora riuscito a “comunicare” ai pazienti del malato il pieno successo dell’intervento, sta Matteo Orfini, il presidente del Pd al quale Renzi ha affidato il commissariamento del partito di fronte all’esplosione giudiziaria del bubbone considerato mafioso dagli inquirenti. Una decisione, quella del commissariamento, presa scommettendo probabilmente sulla convinzione che, essendo romano, Orfini conosca bene la realtà da risanare, e un po’ anche su quel suo aspetto fisico. Che, senza volerlo offendere, per carità, lo fa assomigliare al capo intransigente di un comitato di salute pubblica, salvo pause imposte dalle necessità.

Fu proprio Orfini, nella brutta notte dei risultati elettorali amministrativi di fine maggio, a giocare alla playstation con Renzi nella sede del partito, distraendolo e al tempo stesso consolandolo del pericolo che in quel momento il Pd ancora correva di perdere anche una regione di tradizione rossa come l’Umbria, dopo avere già mollato la Liguria e mentre non era ancora certa in Campania la pur scabrosa vittoria di Vincenzo De Luca. Scabrosa per l’obbligo del presidente del Consiglio di disporne o tentarne la sospensione, sia pure per una condanna di solo primo grado per un abuso d’ufficio compiuto da De Luca come sindaco di Salerno, peraltro senza danno patrimoniale: una cosetta paragonata nel Pd da Pier Luigi Bersani, navigato amministratore locale oltre che ex segretario del partito, ad una multa stradale per un camionista.

Da commissario severo e temuto, obbligato a non fare sconti a nessuno, Orfini è diventato una specie di salvagente per il sindaco in difficoltà, del quale non si stanca mai di ricordare una cosa scontata però da più di vent’anni in Italia: l’elezione diretta da parte dei cittadini, istituita nel 1993. Qualcosa evidentemente sfuggita anche all’insofferente Renzi, che pure ha fatto il sindaco di Firenze e sa bene come si viene eletti a quel posto.

Più che un salvagente, a dire il vero, Orfini è apparso il “guardaspalle”di Marino a Paola Zanca, del Fatto Quotidiano. Che deve essersene convinta anche sentendone le reazioni alle proteste del renziano Guido Improta, dimessosi tempo fa da assessore ai trasporti, scongiurato da Marino a rimanere al suo posto e alla fine rimosso, dalla mattina alla sera, in tempi e modi da farlo apparire come il responsabile del letterale dissesto dell’Atac e dintorni, non meno dei dirigenti e amministratori dell’azienda municipale.

Sorpreso dai giudizi di Improta sul “comportamento” di Marino, peraltro abbandonato il giorno dopo dall’assessore al bilancio Silvia Scozzese, anche lei renziana, Orfini non ha trovato di meglio da dire o da fare che mandargli a mezzo stampa un invito di amichevole chiarimento “a cena”, a lume probabilmente di candela.

Al povero Improta non è stata concessa neppure una partita alla playstation. Quella è riservata evidentemente solo a Renzi. Forse anche a Marino, se il sindaco sarà alla fine indotto alle dimissioni non più dal presidente del Consiglio ma dalle crescenti difficoltà che ha di superare indenne, senza fischi e altre proteste, gli incontri con i romani. Fra i quali ce ne sono sempre più numerosi, con i neuroni ben connessi fra loro, nonostante la diagnosi di segno opposto improvvisata dal medico di fronte ad una contestatrice incontenibile, che si sono pentiti di averlo votato. E che non vengono necessariamente dalle “fogne” nere dove il sindaco vorrebbe “rimandarli”, secondo un altro dei suoi sfoghi di cui poi si sarebbe, in verità, scusato sotto la paziente statua di Giulio Cesare, nell’aula cioè del Consiglio Comunale.


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