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Così finalmente Terracina ricorda Aldo Moro

Finalmente un luogo che ricorda Aldo Moro, un politico che è stato tante cose: presidente della Fuci, docente universitario, segretario del partito di maggioranza relativa del Paese, ministro e presidente del Consiglio, capo del gruppo parlamentare della Dc e presidente della Democrazia Cristiana stessa fino alla mattina in cui è stato rapito dalle Brigate Rosse ed ucciso 54 giorni dopo dai terroristi. Ma anche cittadino onorario di questa città, Terracina.

Aldo Moro e Monte Giove a Terracina sullo sfondo

Se la tragedia non fosse accaduta, molto probabilmente Moro sarebbe stato eletto nell’estate del 1978 presidente della Repubblica, come ammise lo stesso Sandro Pertini, subentrato al dimissionario Giovanni Leone, nel discorso d’insediamento davanti le Camere riunite: “Ci sarebbe dovuto essere lui – disse Pertini – qui al mio posto”. Ma Aldo Moro è stata una persona che ha scelto Terracina come luogo di vacanza sul finire degli anni Cinquanta. Questa città era uno dei posti dove amava riposarsi, non l’unico, ma quello prediletto soprattutto nei mesi estivi insieme alla famiglia (gli altri due erano la casa di Bellamonte in Val di Fiemme e quella di Torrita Tiberina sulla collina che guarda il Tevere).

Qui tornava da Roma anche in alcuni fine settimana per ritrovare il piacere del sole e del mare. “Un bronzo egizio più antico della storia” lo descrisse Mario Pendinelli, inviato del Mondo, osservandolo sul l’assolato balcone di casa, mentre volgeva lo sguardo al Circeo. Alla fine del lungomare “il Presidente” aveva acquistato due appartamenti e sul marciapiede, o sull’arenile, amava passeggiare e pensare, da solo, con gli uomini della scorta, coi familiari. Alle sue spalle l’immancabile maresciallo Oreste Leonardi che negli ultimi tempi teneva in braccio il primo nipote di Moro, Luca (figlio di Maria Fida) addormentato e sudato dopo la fatica di stare al passo col nonno. Moro su questo lungomare ci trascinava chiunque volesse parlare con lui, perché lo riteneva il posto ideale dove il sole trasmetteva calore e tepore ai suoi affezionati.

A Terracina tornava quando aveva bisogno di “un provvido periodo di riposo” e la moglie Eleonora, detta Noretta, cercava di farlo riposare tenendolo al riparo dalle tante persone che volevano parlargli. Alcuni, i più insistenti, perlopiù politici, “a volte erano percuzienti come le mosche”. Ma con la gente del posto Moro amava intrattenersi, ascoltare, capire, tenere a mente. Non dimenticava un volto, una vicenda, una situazione particolare. Quasi si immedesimava nel contesto compreso ed arrivava ad aggiornarsi periodicamente sul caso ascoltato.

Un vero leader sa ascoltare e stare tra le persone. E su questo lungomare il presidente ha incontrato quel ragazzo che ha esortato a non chiedersi cosa il governo potesse fare per lui, ma lui per il suo Paese; su questo tratto di strada si soffermava a salutare i bambini e a complimentarsi coi loro genitori; al porto amava osservare il rientro dei pescherecci; al cinema Fontana si sedeva per godersi gli amati film western, di cui perdeva la trama ed il ruolo degli attori; a Lello Sebastianelli (sindaco moroteo) e a Leonardo De Risi (capogruppo Dc in comune, anche lui moroteo) confidava passeggiando i pregi di Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer, capi degli altri partiti che avrebbero dovuto dare corpo ad un governo di solidarietà nazionale in itinere per novembre 1978, dopo quello monocolore a guida Andreotti.

Pochi lo sapevano: ne avrebbe garantito lui stesso gestazione e nascita. Chi vede in prospettiva e fa politica, spesso rischia la stessa condizione umana e personale. Quando si arriva al bivio della decisione, o ci si ferma, o si segue il proprio destino. E Moro è andato avanti, servendo un’idea utile alla comunità. Questo è stato il suo maggior pregio: saper valorizzare, comprendere, capire, analizzare. E subito dopo, mai escludere, ma includere in un progetto che fosse complessivo.

Quel progetto, il 9 maggio 1978, si è spezzato durante la sua prigionia ed il conseguente assassinio. “Oggi sappiamo – scrive Agnese Moro – che il pericolo contro il quale Aldo Moro cercava di mettere in guardia la classe dirigente e il Paese era un pericolo reale, che non veniva direttamente dai suoi rapitori , che potevano ‘solo’ togliergli la vita, ma piuttosto dal vuoto che la sua morte avrebbe lasciato nella vita politica e sociale del Paese. Per varie circostanze, infatti, e a causa di quei tentativi ‘generosi e ingenui’, egli cercò di opporsi, quasi fisicamente e in una strana solitudine, all’attacco alla Democrazia Cristiana – che in realtà era un attacco alla democrazia repubblicana – proveniente da sinistra e da destra, fuori e dentro il suo partito”.

Noi lo ricordiamo in giacca e cravatta, scarpe lucide, soprabito, percorrere sulla spiaggia il tratto che lo separava da casa (mirabili le foto di Vezio Sabatini su Panorama), ma anche, dopo il 1968, fare lo stesso in calzoncini corti e camicie colorate. Il Presidente era cambiato dopo esser stato quasi emarginato nel suo partito. Era dimagrito, curioso, intellettualmente creativo. Ogni tanto spariva e si rifugiava nella casa in riva al mare, avendo imparato a cucinarsi due uova ed anche a stirare. Lo cercavano da Palazzo Chigi e da piazza del Gesù, ma lui risultava introvabile, in quella casa col telefono che suonava a vuoto e con le stanze senza riscaldamenti. Lui e Oreste Leonardi erano insieme, in giro per Terracina.

Nei giorni successivi alla tragedia Agnese Moro tratteggia l’immagine degli armadi coi vestiti del Presidente sulle grucce dondolanti, il segno di quello che è stato e che non tornerà più, se non in un modo diverso. Oggi a Terracina la città ha compiuto un gesto nobile intitolando questa piazza ad un uomo così, che l’ha amata insieme alle persone che ci vivevano. Lui apprezzerebbe, mi ha confidato Agnese venerdì scorso. Anche il fatto che ci sia tanta luce dappertutto è un buon segno. Non può esserci futuro, senza memoria per ciascuno di noi, per questa città, per questo Paese. Occorre ritrovare, con il senso di quello che è stato, la condizione di comunità, non facendo cose grandi, ma compiendo azioni normali, con la consapevolezza, però, che farle bene ed onestamente significa compiere un’alta azione politica.

Fare bene le cose che ci toccano ogni giorno è politica. Se è così, saremo in condizione di cercare sempre la verità, in piena libertà, come è stato per Moro nello spazio di questo luogo, fino alle dimensioni ristrette della prigione durante i giorni finali. Chissà, senza notizie che gli arrivavano dall’esterno, quante volte avrà ripensato ai suoi familiari, ai tanti volti conosciuti ed anche a questa città. Questo è il luogo dove Moro ci ha conosciuto ascoltando le parole, i silenzi e la voglia di guardare, anche dove gli altri distolgono lo sguardo. Il suo agire prova come la vita di un Paese debba poter contare su uomini capaci di essere creatori di attese, perché ampliare il territorio delle aspettative fa correre positivamente le speranze, riempie le voglie di futuro, mobilita le risorse. In questo senso si ha una percezione alta di quel che ci circonda.

Gli stessi palazzi aprono porte e finestre per far entrare la vita che gira intorno. E pensando davanti al mare e sotto il sole di questa bella giornata intuiamo che “Tempi nuovi si annunciano e arrivano in fretta come non mai”. E ogni politico, come scrisse Moro in un articolo per il quotidiano Il Giorno, ha solo il compito di non guastare quel che la vita sociale, nel suo evolvere positivo, va di per sé costruendo. “Tra la disponibilità e la realtà, tra la ricchezza di base e la composizione armonica nel contesto sociale vi è uno spazio molto vasto (e ricco di problemi di ogni genere), il quale ha da essere occupato da un’indispensabile e lungimirante iniziativa politica”. È importante ricordare un uomo che è stato così, in questa piazza che da oggi porta il suo nome.


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