Nella partita d’autunno a Palazzo Madama sulla riforma del Senato, decisiva per la sopravvivenza del governo, e forse anche della legislatura, c’è un arbitro in condizioni, diciamo così, anomale. E’ il presidente dello stesso Senato, Pietro Grasso. Che, a dispetto della sua funzione neutrale, si troverà non a dover ordinare con il fischietto l’inizio della partita, ma a tirare il primo colpo alla palla, mandandola dalla parte del governo o delle opposizioni.
Spetterà, in particolare, a lui decidere se sull’articolo 2 della legge di riforma, che introduce il principio dell’elezione indiretta del Senato, si potrà tornare a votare per accogliere o respingere proposte di modifica.
Poiché il principio dell’elezione indiretta, introdotto dallo stesso Senato nella sua prima “lettura” della riforma, cioè nel primo degli almeno due passaggi spettanti a ciascuna Camera per questo tipo di leggi, è stato poi approvato anche a Montecitorio, il governo ritiene che indietro non si possa più tornare. Il Senato, sempre secondo il governo, potrebbe intervenire nel nuovo passaggio della legge solo sulle parti modificate dai deputati.
Ma, pur invariato nel principio dell’elezione indiretta, l’articolo 2 ha subìto alla Camera una correzione: il nuovo Senato, ridotto nei numeri e nelle funzioni, va eletto non dai ma nei Consigli Regionali. E’ una modifica che il governo ritiene irrilevante, di natura grammaticale, ma che le opposizioni e i dissidenti antirenziani del Partito Democratico considerano pur sempre un cambiamento, per cui reclamano il diritto del Senato di tornare sul testo dell’articolo. E pensano di poter così riaprire più chiaramente il discorso anche sul tipo di elezione del nuovo Senato: indiretta, come vuole Renzi, o diretta, come essi preferiscono: da parte, cioè, degli elettori chiamati alle urne.
Se questo tipo di riapertura del discorso fosse consentito dal presidente dell’assemblea, che ha rivendicato la competenza di decidere in ultima istanza, il governo potrebbe correre il rischio di essere battuto, essendo notoriamente ballerini i margini della maggioranza al Senato. Ballerini a causa della forte dissidenza interna al Pd, per quanto Renzi possa contare sugli aiuti di una parte degli ultimi fuorusciti da Forza Italia ed altri gruppi dell’opposizione.
La crisi che si aprirebbe per una sconfitta del governo potrebbe sfociare nelle elezioni anticipate, reclamate o minacciate dagli amici di Renzi, o nella decisione del capo dello Stato di cercare di salvare la legislatura con un governo di emergenza, di carattere più “istituzionale” che politico, non foss’altro per evitare di mandare gli italiani alle urne con la legge elettorale vecchia, e mutilata dal no della Corte Costituzionale al premio di maggioranza e alle liste bloccate. La nuova legge elettorale, approvata definitivamente nel mese di maggio, non è infatti applicabile prima dell’estate dell’anno prossimo. Ed è valida solo per la Camera.
Per la guida di un governo istituzionale di emergenza il capo dello Stato potrebbe anche pensare al presidente del Senato, che diventerebbe però troppo divisivo se responsabile della crisi per effetto della decisione di sbloccare l’articolo 2 della riforma del bicameralismo. Renzi non guiderebbe più il governo ma, restando il segretario del Pd, potrebbe mettersi di traverso. E senza il suo consenso non ci sarebbe maggioranza per nessun nuovo presidente del Consiglio, a meno di una improbabile doppia crisi: di governo e di partito.
Se invece Grasso mettesse a dieta le sue reclamate prerogative di presidente del Senato, attenuasse le sue note riserve sul ridimensionamento del secondo ramo del Parlamento, contribuisse a blindare l’articolo 2 e lasciasse giocare la difficile partita della riforma su altri passaggi della legge, ugualmente rischiosi per il governo, potrebbe più facilmente concorrere ad una successione a Palazzo Chigi. E rivivere una parte dell’esperienza d’inizio della legislatura, quando da presidente appena eletto del Senato, proveniente da una lunga carriera giudiziaria, apparve brevemente una possibile soluzione “istituzionale” prima per la successione a Giorgio Napolitano, al Quirinale, e poi per la successione a Mario Monti, a Palazzo Chigi, visto il fallimento degli ostinati tentativi dell’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, vanificati dal capo dello Stato, di realizzare un governo di minoranza appeso agli umori dei grillini.