Fra le modifiche presentate con spirito più o meno guerrigliero dalla minoranza antirenziana del Partito Democratico alla riforma del bicameralismo, che da paritario e ripetitivo dovrebbe diventare differenziato, ve n’è una che con il bicameralismo non c’entra nulla. E neppure con la revisione del titolo quinto della Costituzione, riguardante i rapporti con le regioni, anch’esso investito dalla riforma per i pessimi risultati prodotti da un intervento effettuato dal centrosinistra nel 2001, nella illusione di soddisfare la Lega di Umberto Bossi e sottrarla all’alleanza che stava recuperando con il centrodestra di Silvio Berlusconi.
La modifica estranea al bicameralismo riguarda quel che rimane, dopo l’amputazione subita nel 1993 sull’onda giudiziaria di Tangentopoli, delle immunità parlamentari disciplinate dall’articolo 68 della Costituzione. E’ la traduzione di una proposta avanzata di recente a titolo curiosamente personale dal ministro della Giustizia Andrea Orlando di fronte alle polemiche esplose anche nel suo partito sul no opposto dal Senato, a scrutinio segreto e con il concorso determinante di una parte dello stesso Pd, all’arresto domiciliare dell’ex presidente alfaniano della Commissione Bilancio Antonio Azzollini. Arresto chiesto dalla magistratura di Trani per il dissesto dell’ex manicomio pugliese di Bisceglie, di cui comunque Azzollini, pugliese anche lui, risponderà nel processo, cui i parlamentari non possono più sottrarsi con la vecchia, e abolita, richiesta di autorizzazione a procedere.
In particolare, pur concordando a parole con il forte monito del presidente del Consiglio a non scambiare le Camere per “passacarte” delle Procure e uffici attigui, il ministro Orlando ha proposto di passare alla competenza della Corte Costituzionale le valutazioni e decisioni in materia di manette ai parlamentari.
Per quanto criticata dal sindacato dei magistrati, che preferisce evidentemente come interlocutore il Parlamento, vista la facile impopolarità in cui incorrono i rifiuti delle Camere agli arresti reclamate dalle toghe, la proposta di Orlando è piaciuta alla minoranza del Pd, che vi ha visto forse una preziosa occasione per lavarsi le mani, come Pilato. Ed evitare di doversi scusare con gli elettori, come ha chiesto la vice segretaria del Pd Debora Serracchiani in occasione del caso Azzollini, ogni volta che un voto parlamentare dovesse essere diverso dalle richieste giudiziarie.
La Corte Costituzionale, composta per un terzo da eletti dal Parlamento, per un terzo da nominati dal presidente della Repubblica e per un terzo da designati dalla magistratura, è un po’ scambiata a sinistra per una Corte dei miracoli, capace cioè di trasformare l’acqua in vino, o viceversa. Una Corte peraltro che ormai non riesce più ad essere a ranghi completi per i ritardi tanto abituali quanto scandalosi con cui il Parlamento provvede a sostituire i giudici di sua competenza che man mano scadono o decadono. E’ ancora vuoto, fra gli altri, il seggio lasciato da Sergio Mattarella per la sua elezione a presidente della Repubblica.
Il ministro Orlando dovrebbe sedere alla scrivania di Palmiro Togliatti, recuperata orgogliosamente fra i mobili finiti negli scantinati di via Arenala da Oliviero Diliberto, guardasigilli ai tempi di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi. Ebbene, fra i lasciti di Togliatti c’è, all’epoca dell’Assemblea Costituente, la famosa e bruciante definizione della Corte Costituzionale: una “bizzarria”, che “non si sa cosa sia”, grazie alla quale “illustri cittadini verrebbero a essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema della democrazia per esserne i giudici”. Parole, ripeto, di Palmiro Togliatti, non di Silvio Berlusconi, che allora era solo un ragazzo smanioso d’incollare sui muri di Milano, anche per fare contento il padre, i manifesti elettorali della Dc di Alcide De Gasperi.