Il problema dell’immigrazione, come si dice, è una questione globale.
Con questa espressione moderna si vuole intendere, in realtà, un significato molto antico; vale a dire che lo spostamento dei popoli è un processo dinamico generale, universale, che investe tutti, ma proprio tutti, nel mondo.
Papa Francesco ha voluto dare così un forte appello a favore dell’accoglienza dei profughi e degli emarginati, condannando duramente gli atteggiamenti di coloro che tendono a respingerli, magari semplicemente per paura o per semplicismo ideologico.
Il Santo Padre ha colto l’occasione concreta, ricevendo in Vaticano 1500 ragazzi del Movimento eucaristico giovanile. L’esempio utilizzato è stato particolarmente eloquente, riguardando uno dei popoli più perseguitati della terra, i migranti Rohingya, gruppo musulmano in fuga dal Myanmar nell’Oceano Indiano, il quale è costretto a spostarsi in diversi Paesi dell’area circostante, Birmania, Malesia, Thailandia e Indonesia, senza trovare pace.
Ora, di là delle facili strumentalizzazioni, qual è il senso che deve essere attribuito a questo duro pronunciamento del Papa? E, ancor più, cosa significa dire che ”i respingimenti sono veri e propri atti di guerra”?
Dobbiamo aprire le nostre case e lasciarci investire da tutte queste masse disperate?
In tanto è di rilievo il fatto che Francesco ha collegato il tema degli spostamenti migratori a una condizione antropologica e sociale fondamentale: la conflittualità. Gli esseri umani devono tendere a una convivenza pacifica, e questo è ovvio, ma la condizione sostanziale, in tutti i contesti presenta una ricorrente situazione di tensione e di contrasto tra soggetti comunitari.
Con ciò ogni possibile lettura buonista appare inadeguata e fuorviante. Bergoglio non ha sostenuto né il pacifismo, né tanto meno uno spirito di accoglienza irresponsabile. Ha pensato, detto e esortato, invece, a qualcosa di molto più profondo e audace.
La vita personale è chiamata, certo, a quello stato etico e politico di pienezza che è contraddistinto dal significato autentico del concetto di pace. Nessun uomo dotato di buon senso può pensare che sia meglio stare in guerra piuttosto che in tregua con gli altri. Ma per un cristiano tale punto di arrivo non può essere raggiunto senza lottare, senza battersi e senza impegnarsi direttamente. La pace è il frutto del sacrificio, altrimenti diventa un’edulcorazione, una finzione, che nasconde falsità o, peggio ancora, obiettivi ben peggiori e più malvagi.
Ai giovani Francesco ha indicato la via cristiana di sempre che è esattamente quella ricavabile dall’esperienza stessa della storia. Non ci si può rassegnare al male e non ci si può fermare al comodo.
Il conflitto, pertanto, costituisce l’essenza ultima del percorsi che ogni persona, soprattutto giovane, necessariamente deve intraprendere per realizzare ideali grandi, oggi racchiusi ed esemplificati anche dall’accoglienza e dalla possibile convivenza con i diversi.
Il fatto stesso che l’arrivo in massa ormai di profughi non solo nelle coste italiane ma dovunque sia una tragica realtà europea non può non rendere queste affermazioni di Francesco ancor più suggestive, provocatorie e importanti.
Se, da un lato, c’è chi lotta per sopravvivere, giungendo a rischio della vita fino a casa nostra, dall’altro è naturale che pure per noi assuma caratteristiche problematiche e conflittuali la gestione del fenomeno.
Il Papa, insomma, ha voluto ricordare che l’immigrazione è un modo attuale di presentarsi della belligeranza universale. E ha voluto rilevare che questa situazione, insieme alle difficoltà che essa pone in essere, non è dissociabile dalla guerra come relazione ordinaria, purtroppo talvolta violenta e dolorosa, tra esseri umani.
La cosa importante è non perdere coscienza e non assumere atteggiamenti banali che non tengano conto di cosa si nasconde dietro tali accadimenti.
Quello che non si può fare è ritenere cioè che basti pensare i problemi per risolverli, e che sia sufficiente chiudere le porte per avere una garanzia di tranquillità e benessere. Infatti la pace è espressione semmai sempre provvisoria di un continuo tendere verso l’armonia e verso la gestione del rapporto positivo con gli altri, non senza lotta e pericolo.
Non a caso un cenno finale è stato fatto anche al tema cruciale delle identità. I diversi popoli hanno diverse identità. E così come chi emigra cerca di difendere la propria; chi accoglie deve salvaguardare la propria. Non è detto che sia impossibile la convivenza in un territorio di identità eterogenee, ma è sicuro che non si possa vivere senza capire e impegnarsi per essere se stessi, e senza affermare e materializzare consapevolmente e coraggiosamente quello che si è, includendo l’altro come elemento imprescindibile.
D’altronde, è fin troppo ovvio che il modo più efficace per essere umani consista nel mostrare chi si è realmente come singolo popolo, quali valori umani si hanno, quale sensibilità si è raggiunto, e perché il proprio modo d’essere specifico, che contraddistingue una serie di persone come unità, sia la condizione indispensabile per rispettare poi tutti gli altri nella loro.
Identità comunitarie forti e impegnate, dunque, non senza conflitto, non senza pace.