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Tutte le contraddizioni delle classi dirigenti italiane

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

La crisi strutturale del nostro Paese è tale che occorre, proprio verificando questa tendenza evidentissima, analizzare di nuovo la vecchia teoria delle élite e i criteri di selezione di tutte le classi dirigenti; e quindi non solo di quella politica.
Gaetano Mosca aveva analizzato la teoria delle classi di governo con grande acribia scientifica, selezionando le differenti tipologie, di primo e secondo livello, riguardo all’esercizio effettivo del potere.

Ed aveva notato che tutte le élite tendono a perpetuarsi per via ereditaria. Ma le classi dirigenti si affermano, per il professore siciliano, in quanto monopolizzano il potere e creano dei meccanismi di controllo integrale e fattuale per quanto riguarda la sua gestione.
Invece per Pareto, che pure ebbe con il senatore ed accademico palermitano una fiera polemica, le classi dirigenti nascono, in ogni gruppo sociale, compresi gli scassinatori e i pugili, per selezione quasi darwiniana, mentre cessano automaticamente di operare quando qualcuno, dal basso, si dimostra, sul campo, migliore dei vecchi “arnesi”.

Mosca gli disse che, in effetti, tra l’élite dei ginecologi e quella politica c’è una evidente differenza: quelli comandano una porzione inevitabilmente definita del meccanismo sociale, mentre le classi politiche, invece, si arrogano il diritto di gestire tutto, ed è per questo che sono, salvo l’ereditarietà delle cariche, più labili e deboli delle altre.

Ecco, come analizzare quindi la evidente e grave caduta di livello delle classi dirigenti e politiche dell’Italia attuale? Nessuna teoria è sufficientemente efficace.
Io penso che la crisi della selezione della dirigenza politica, nell’Italia contemporanea, sia dovuta soprattutto alla caduta del progetto nazionale e culturale italiano.

L’Italia, parafrasando Giuseppe Prezzolini, è finita e, diversamente da quello che diceva lo scrittore fiorentino, non resta ormai nulla.
Non la politica estera, che non è più da “media potenza”, come ci ha insegnato l’ambasciatore Gaja, ma da ombra talvolta comica del nulla strategico europeo.

Non l’economia, che vive di shock asimmetrici e offensivi verso di noi che nessuno riesce nemmeno a capire.
Nessuno, oggi, al governo o all’opposizione, capisce cosa ci sia dietro la questione dei Marò detenuti ingiustamente in India, o nel rapporto tra cultura giovanile e creazione di forza-lavoro.

La cultura è oggi, purtroppo, spettacolo, come la politica, secondo la ferale previsione di uno scrittore che meriterebbe di essere riletto, l’anarchico e “situazionista” Guy Debord.
Il proletariato è, come diceva appunto Debord, “soggetto e rappresentazione” e tutto, oggi, ha un significato, pericolosissimo, di comunicazione per l’entertainment.

Il divertimento, nel senso etimologico del termine, la diversione, l’inganno, il “pensiero debole”, l’estetizzazione della vita e della cultura, tutto ha un significato che le classi dirigenti non colgono e che cade loro addosso, come peraltro a noi.
Quando abbiamo costruito la Nuova Italia, la Resistenza si richiamava, con qualche forzatura, al Risorgimento, ed in effetti il nemico era, sul piano nazionale, lo stesso.
La memoria storica funzionava anche per le classi subalterne, e o stesso “iracolo economico”, come peraltro avvenne anche in Germania e in Giappone, fu sentito anche come riscossa e momento di dignità riconquistata per la nostra Nazione.

Lasciamo stare qui la precisa tattica politica del PCI, che pure di classi dirigenti, grazie allo straordinario pensiero di Gramsci, ben si intendeva.
I cattolici, con il Codice di Camaldoli, mentre l’Italia cade per l’insipienza delle vecchie classi liberal-monarchiche e la retorica vacua e guerresca del fascismo, nella più turpe guerra civile della sua storia moderna, creano il progetto di un Welfare State personalista e liberale che, dopo, sarà la cifra del grande e nuovo sviluppo dell’Italia repubblicana.

Non Keynes, che pure Vanoni e Saraceno conoscevano di primissima mano, non il liberismo che ci avrebbe privato di ogni espansione produttiva, non il vecchio statalismo clientelare fascista.
Trovammo una nuova formula, che ha ricostruito l’Italia, partendo dalla più antica e profonda tradizione popolare e identitaria dell’Italia: il Cattolicesimo.
La modernizzazione guidata dai cattolici, un paradosso per la vecchia scienza politica positivista.

I laici e i liberali si mossero in un contesto di fedeltà alle alleanze liberamente scelte dalla Nuova Italia, e ne garantirono alcuni aspetti istituzionali e politici, collaborando efficacemente con i cattolici al potere.
Era finito anche il vecchio sogno del contrasto feroce tra cattolici e “laici”, tra Massoneria e Chiesa, tra Risorgimento e legittimismo clericale.
Oggi, qual è la fisionomia politica e strategica italiana?

De Gasperi, che ricordo qui con affetto in questi giorni che vedono l’anniversario della sua scomparsa, parlava di “giustizia sociale” che vuol dire andare avanti, non a destra o a sinistra.
Noi, e io sono felice di averne fatto parte, siamo stati i “boiardi di Stato” che hanno fatto le autostrade, la politica energetica con il partigiano “bianco” Enrico Mattei, contro tutto e contro tutti, e abbiamo, insieme ad una classe politica che ci sosteneva e comprendeva, spesso di raffinata formazione culturale (penso a Cossiga, a Paolo Emilio Taviani, a Saragat e a tanti altri) ricostruito e costruito il nostro Paese.

Io ho venduto la SME a prezzo di mercato, mentre c’era chi voleva favorire alcuni concorrenti esteri, e ne vado ancora fiero.
Mi aiutò Bettino Craxi, e ricevetti in seguito una lettera tutt’altro che formale, di congratulazioni, dal presidente Ciampi.
Ecco, questo forse è il punto: la classe politica che oggi dà così scarsa prova di sé è nata in un contesto di privatizzazioni che hanno privato l’Italia della sua fisionomia produttiva e della sua capacità sovrana di decisione, anche strategica.
Non sono certo un nostalgico di certi momenti dello statalismo italiano tra anni ’60 e ’80, mentre, peraltro, la fine del sistema di Bretton Woods nel 1971 ci poneva problemi colossali, che ancora in parte persistono nella arretratezza produttiva del nostro Paese e nel continuo espandersi delle “divergenze strutturali” tra noi e i nostri concorrenti.

Però, oggi, una classe politica deresponsabilizzata, carrierista, ossessionata dal soldo facile e dalla malefica ”immagine”, mentre tutti sanno che solo il potere che non si vede è quello che conta, è forse proprio il frutto di quella malaugurata stagione che vide i partiti politici in crisi accettare la minore liquidità derivante dalle grandi privatizzazioni, invece che da una costante crescita della produzione nazionale.
Nemmeno qui voglio fare il sostenitore, in ritardo, della pesante mano pubblica nell’economia.

Ma i privati, spesso, non hanno fatto meglio, ed anzi hanno fatto debiti per comprare delle aziende, debiti che poi hanno caricato sulle aziende e poi hanno stritolato le imprese che avevano comprato.
Il leveraging delle industrie e anche della politica, ha generato una società non solo dello spettacolo, ma della faciloneria, del servilismo politico gregario, della selezione al contrario delle classi dirigenti, che ormai passano (è capitato anche questo) dalla Presidenza della Camera all’intrattenimento televisivo musicale.
La decadenza delle nostre scuole ha fatto il resto: oggi un qualsiasi titolo di studio vale quanto il titolo più basso dei nostri antichi anni.

Sappiamo che l’ISTAT valuta lo stipendio dei laureati oggi quanto quello dei diplomati ieri e, davvero, la Scuola Media Unica che facemmo il 31 dicembre del 1962 valeva, allora, quanto un titolo secondario oggi.
Tutta la società italiana, la sua economia, la sua cultura hanno subito prima una battuta di arresto, dal 1967 al 1980, poi, oggi, una rapida decadenza che sembra non finire mai. Decadenza che non si spiega, come quella dell’Impero Romano, che vanta almeno 21 diverse teorie sulla propria fine, e tutte ragionevoli.

Colpa del sessantotto studentesco? Si e no. Quella fase fu una incontrollata trasformazione sociale dell’Università, ed eravamo già in crisi strutturale, con luci e ombre, ma l’Italia ce la fece, con Carlo Alberto Dalla Chiesa e i suoi carabinieri, ma anche con un attenta politica di bastoni e carote, a ricondurre tutto nell’alveo della normalità.
Pensate se oggi, con questa classe politica, ritornasse una rivolta politica, culturale e “militare” come quella del ’68.
Salterebbero tutti come birilli, senza idee che non siano il vellicamento di qualsiasi massa abbastanza grande.

Ormai la quantità delle masse da “seguire” vale più della qualità delle loro proposte, e qui si ritorna a Pareto: potrebbe esserci l’élite dei parrucchieri per signora, ma da questo non si deduce che essi rappresentino lo spirito del Mondo. C’è gente, nella attuale classe politica, che crede che basti ripetere quello che la gente dice per essere dei leader.
Viene in mente l’acume di Karl Kraus, quando affermava che “il politico deve essere talmente stupido in modo che la gente si creda intelligente identificandosi con lui”.

Ecco, qual è infine il progetto strategico di questa classe dirigente politica? Impossibile a determinarsi razionalmente, salvo lo stay in power il più a lungo possibile.
Ricostruire la dignità nazionale? Noi lo facemmo, e vale qui ricordare lo stile, la fermezza, il carattere di Alcide De Gasperi alla conferenza di Parigi.
Questi lo sanno cosa significa essere dignitosi, rispettosi ma mai arrendevoli? Forse pensano che tutto scorra e che l’unica misura sia quella della smemoratezza delle masse? Ma i nostri amici e avversari esteri hanno una memoria da elefante. E la avevano anche davanti a De Gasperi.

Vogliono forse far diventare l’Italia una sorta di piattaforma industriale per le imprese di altri Paesi? La Svizzera lo ha fatto, ma con una forza di condizionamento straordinaria. Noi non ce l’abbiamo.
La classe politica attuale vuole forse trasformare l’Italia nel Paese-chiave del Mediterraneo? Stanno facendo tutto l’opposto, tra poco nel Mare Nostrum conteremo meno di certi Paesi del Maghreb in espansione strategica e economica.
Vogliono, mi chiedo ancora, ritornare ad ancorarci alle Alpi, come diceva Ugo La Malfa, per non sprofondare nel disastro africano e mediterraneo attuale?

Bisogna operare allora di conseguenza, ma con decisione, sulla Kerneuropa dominata dalla Germania. Non ci vogliono chiacchiere, ma progetti precisi e la forza per indurre avversari ed amici verso la nostra decisione. E insomma, cosa vuole la nostra classe politica se non, come diceva Gaetano Mosca, rimanere al potere costi quel che costi, perfino se ciò implicasse la distruzione stessa del nostro Paese?
Ma, e qui finisco con le domande retoriche, lo sanno che chi non è stato bravo una volta non viene “comprato” da nessuno? Ecco, in questo la furbizia del politicante, come spesso accade, si trasforma in ingenuità.

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