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In Libia non ci sarà accordo duraturo senza “State Building”

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Il rappresentante speciale per la Libia del Segretario Generale delle Nazioni unite Bernardino Léon ritiene che per la fine del mese di agosto, o comunque prima dell’inaugurazione della prossima Assemblea generale dell’ONU a metà settembre, si possa arrivare a un accordo di massima per la Libia. Al tavolo delle trattative mancano ancora quattro delle 24 fazioni coinvolte nei negoziati, tra queste anche il “governo” di Tripoli, l’antagonista “islamista” di quello di Trobruk riconosciuto dalla comunita internazionale, ma il progresso parrebbe consolidato.

Nei giorni in cui Léon rendeva noti alcuni  dei punti cardine intorno ai quali i 20 gruppi meno riottosi stavano raggiungendo un accordo, ma simili proclami girano purtroppo da mesi, il cosiddetto Stato islamico muoveva verso sirte con una serie di violenti attacchi e successive violenze, andandosi a insinuare in una città strategicamente situata quasi a metà strada tra Tripoli a est e Tobruk a ovest.

Naturalmente l’ISIS non è parte delle trattative, anzi, pare esser l’unico nemico, o in gergo “non-state actor”, contro il quale la comunità internazionale sembra esser intenzionata a prender le armi. Dopo i raid aerei egiziani volti a liberare una cinquantina di connazionali copti presi prigionieri dall’ISIS mesi fa, adesso l’intera Lega Araba sarebbe intenzionata a prendere in considerazione le richieste d’aiuto lanciate da Tobruk. Le richieste alla Lega Araba riguardano interventi militari aerei volti a indebolire l’ISIS e a circoscriverne la presenza in zone strategicamente periferiche.

A fine luglio la Libia era tornata a far notizia anche per la sorte di Seif al-Islam, il figlio di Gheddafi ritenuto responsabile di crimini contro l’umanità e crimini di guerra da parte del Procuratore generale della Corte Penale Internazionale assieme al capo delle spie libiche Al-Senussi. Due anni fa, con un’incredibile decisione, il figlio di Gheddafi fu lasciato ai suoi carcerieri nella speranza che l’allora governo di transizione cogliesse quella apertura per mettersi nelle condizioni di poterlo processare secondo gli standard di amministrazione della giustizia previsti dalle istituzioni internazionali.

Non solo a fine luglio Saif al-Islam è stato condannato alla pena capitale da un tribunale di Tripoli (la “non capitale” libica), punizione che la Corte Penale Internazionale non prevede neanche per genocidio, ma il processo si è svolto in contumacia perché i suoi carcerieri, nella “provincia autonoma” di Zintan, non lo hanno mai consegnato alle autorità del governo di transizione nella speranza di poterlo utilizzare un giorno come pedina di scambio. Quel giorno potrebbe esser arrivato.

In un’intervista alla Stampa a metà agosto, il ministro degli Esteri Gentiloni ha ammonito che se non ci sarà a breve un deciso intervento politico e diplomatico, senza escludere un impegno militare, la Libia rischia di diventare una nuova Somalia. Se la prima parte dell’analisi è sicuramente condivisibile la seconda mi pare che non tenga in considerazione una differenza fondamentale tra i due contesti: in Libia c’è il petrolio e i suoi giacimenti son più vicini a l’Unione europea di quelli del Mare del Nord. La Libia non potrà mai diventare una nuova Somalia, anche se tutto dovesse restare com’è, la sua importanza per l’Europa è radicalmente diversa dal Corno d’Africa e per gli europei l’interesse nazionale continua a essere il pilastro della politica estera.

Oltre ad aver invocato l’estradizione di Gheddafi junior verso l’Aia già dal 2011, più volte mi è capitato di manifestare scetticismo sul processo negoziale in corso da mesi sotto l’egida delle Nazioni unite. Fosse stato per me, già nella primavera dell’anno scorso, prima ancora dell’arrivo dell’ISIS in Libia, le Nazioni unite avrebbero dovuto inviare un primo contingente di caschi blu per mettere in sicurezza alcune delle aree sotto il controllo del governo riconosciuto della comunità internazionale al fine di rafforzarlo e ingaggiare, con una diplomazia più muscolosa, i gruppi di Tripoli in un dialogo chiaro e trasparente. Allo stesso tempo, una presenza militare internazionale avrebbe anche lanciato un chiaro messaggio alle reti di criminali dedite al traffico di armi, droga ed esseri umani, più o meno religiosamente ispirate. Sarebbe stata una decisione in soluzione di continuità con quattro decenni di alleanze nord-sud devastanti, una decisione che, seppure presa dalla comunità internazionale, avrebbe dovuto vedere la Lega Araba e l’Unione Africana come soci di minoranza.

Oggi, mancando all’appello il partner più importante per poter arrivare a un accordo, cioè Tripoli, occorre fin da subito attrezzarsi per imporre comunque una tutela internazionale intorno alla Libia e gettare le basi per un vero e proprio “state building” secondo quanto previsto dalle decine di convenzioni e patti internazionali in materia di diritti umani. Occorre che il Consiglio di Sicurezza discuta quanto prima la struttura di una missione di peacekeeping (sperando che non si debba passare al peace enforcing) che accompagni l’applicazione degli accordi, sulla falsariga di quanto fatto in passato altrove, come per esempio in Guatemala (anche se magari con maggiore attenzione al dettato degli accordi e le loro ripercussioni in tutti gli ambiti della vita civile e sociale del paese), e che faciliti una transizione verso una paese che come primo problema non può avere la convocazione di “libere elezioni” ma quello di costruire delle istituzioni basate sul rispetto dello Stato di Diritto internazionale e, quindi, dell’amministrazione della giustizia e dei diritti umani. Il minimo dopo 40 anni di dittatura.

Nel mondo esistono politici, diplomatici, funzionari internazionali all’altezza di questo compito, ma occorre che gli accordi delle prossime settimane, specie se non verranno riconosciuti da tutte le parti in causa, e ancora di più di il sigillo del Consiglio di Sicurezza, prendano in considerazione i principi universali e non solo le convenienze e gli interessi di chi li sottoscriverà: si tratta di gettare le base per la costruzione di un paese e non pretendere di farlo rientrare nella normalità componendo alleanze temporanee in un governo di “unità nazionale”. La Libia non è mai stato uno stato “normale”.

C’è chi lo chiama “neo-colonialismo”, io lo chiamo Nazioni unite al lavoro. Da 70 anni, l’Onu ha, avrebbe, come scopo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale attraverso la promozione del Diritto e la protezione e promozione dei diritti umani; chi fino a ieri si ammazzava brutalmente non può, sulla base di una firma su un pezzo di carta, cambiare radicalmente i propri comportamenti senza che qualcuno lo controlli, lo segua e lo doti delle necessarie risorse umane e finanziarie (che in Libia, almeno sulla carta abbondano) per incamminarsi verso un futuro migliore.

Andranno adottate delle amnistie? Andranno liberati dei criminali? Chi farà parte della polizia? E l’esercito come verrà composto e chi lo armerà? Andranno prese in considerazione le richieste di vittime di ogni tipo di sopruso, andranno create le condizioni perché l’amministrazione della giustizia non sia uno strumento di vendetta o persecuzione nella mani delle oligarchie “vincenti”, andrà dedicata grande attenzione alla qualità del codice penale, di quello civile, andrà imposta la ratifica di tutti gli strumenti internazionali in materia di diritti umani e seguita, passo passo, la loro inclusione nel sistema legale nazionale. Andranno formati giudici, procuratori, avvocati, per non parlare della classe politica e amministrativa e garantita una stampa libera. Ma soprattuto andrà confinato nei volantini di qualche terzomondista dell’ultima ora qualsiasi rivendicazione tipica del nefasto “relativismo culturale” che potrebbe far includere clausole religiose o eccezioni di vario genere in qualsiasi documento ufficiale e pubblico che venga scritto, o rivisto, dai nuovi amministratori della Libia.

Siccome Léon farà del suo meglio, e anche di più, per arrivare ad avere l’accordo di tutte le (almeno) 24 fazioni attive in Libia, il testo dell’accordo continuerà a cambiare nelle prossime settimane nel tentativo di accontentare le richieste più esose degli ultimi arrivati. Ma per quanto esose queste possano essere, se l’obiettivo finale è quello di avviare l’inclusione della Libia tra i paesi democratici, non si potrà far l’economia degli obblighi internazionali in materia di diritti umani.

Arrivare all’inaugurazione dell’Assemblea generale di metà settembre prossimo sarebbe importante ma, essendo passati ormai oltre 40 anni da quando si è lasciato che la Libia sfuggisse dalla sfera d’influenza dell’Occidente e della legalità internazionale, qualche settimana, o mese, in più per scongiurare un primo passo falso non farà grande differenza. Altrimenti sì, l’unica opzione possibile, o necessaria, sarebbe quella militare.

La tanto ricercata, ma solo di recente, pace in Libia va conquistata con l’affermazione della giustizia e la creazione di uno stato di diritto democratico, laico e, è bene cominciare a dircelo senza troppi timori, federalista.

P.S.

Non ho parlato volutamente di controllo dei flussi migratori perché ritengo che, oltre a esser un fenomeno sul quale non sia possibile intervenire in generale, nello specifico una Libia non nel caos non sarebbe, comunque, un luogo adatto né allo “studio” delle richieste d’asilo dei rifugiati né un contesto socio-economico dove far rimanere, o respingere, i cosiddetti migranti economici. Ma di questo se ne riparlerà.

Marco Perduca

Rappresentante all’Onu del Partito Radicale


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