La battaglia campale sul ddl Boschi rischia, a meno di improbabili passi indietro dei contendenti, di avere come effetto lo strappo definitivo nel Pd. Ancora nelle ultime ore – presentati gli emendamenti e manifestatasi una “maggioranza alternativa” al Senato – la tensione continua a montare, nonostante il redde rationem sul testo sia fissato a settembre.
A complicare i rapporti tra le due anime del partito è arrivato l’intervento del presidente emerito Giorgio Napolitano che sul Corriere della Sera ha caldeggiato vivamente che la riforma Boschi possa continuare senza passi indietro (no al Senato elettivo, quindi): un niet alle richieste della minoranza Pd e delle opposizioni.
L’intervento ha scatenato la reazione di diversi esponenti della minoranza Pd, soprattutto degli esponenti della tradizione “ulivista”. A partire da Rosy Bindi, esponente di spicco della minoranza Pd, che ha attaccato l’ex inquilino del Colle: «La sua uscita è stata inopportuna». Non solo. L’invettiva della Bindi non si è fermata allo stop all’ingerenza di Napolitano, ma ha rivendicato quel «ripensamento che riporti alle origini uliviste» in polemica, per proprietà transitiva, al percorso riformatore, Senato incluso.
Ma cosa dicono queste “origini”? A rispondere all’interrogativo è arrivato un tweet malizioso a ricordarlo: «Ecco la tesi N. 4 del programma dell’Ulivo del 1996 (dedicata in particolare @rosy_bindi)». Così Claudio Petruccioli – ex senatore Pd e già nel cda Rai – ha rinfrescato la memoria su un tema sul quale gli antirenziani promettono barricate. Che cosa dice la “tesi” del programma ulivista a proposito? Testualmente: “La realizzazione di un sistema di ispirazione federale richiede un cambiamento della struttura del Parlamento”.
Ecco i dettagli del progetto ulivista: “Il Senato dovrà essere trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza”. E poi: “Il numero dei Senatori (che devono essere e restare esponenti delle istituzioni regionali) dipenderà dalla popolazione delle Regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le Regioni più piccole (…) I poteri della Camera delle Regioni saranno diversi da quelli dell’attuale Senato, che oggi semplicemente duplica quelli della Camera dei Deputati. Alla Camera dei Deputati sarà riservato il voto di fiducia al Governo. Il potere legislativo verrà esercitato dalla Camera delle Regioni per la deliberazione delle sole leggi che interessano le Regioni, oltre alle leggi costituzionali”.
Insomma, si scopre che il superamento del bicameralismo e una Camera Alta ripensata erano già nel programma dell’Ulivo guidato da Romano Prodi e che tale programma ipotizzava un Senato non così diverso da quello disegnato dall’attuale governo.
Perché allora tanti strepiti da parte dei settori “popolari” dell’attuale minoranza Pd su un tema che non rappresentava un tabù per la stessa “creatura” del padre nobile del centrosinistra? Sui blog e sui social si è dibattuto su questo punto: affermando che ai tempi non c’era l’Italicum e nemmeno il tentativo di devolution. Ma la conferma del rigore filologico dell’“origine” prodiana arriva da un “ulivista” di assoluta fede come Arturo Parisi: «Assicuro – ha spiegato a L’Unità – che tra di noi la convergenza sulla scheda n.4, quella sulla Camera delle Regioni non fu allora una passeggiata. Essa anticipava infatti alla lettera la proposta sul Senato ora in discussione. Discutemmo per mesi, ma alla fine raggiungemmo un accordo. E l’Ulivo era allora una Coalizione, non un Partito come ora il Pd. Come è accaduto che dopo questo lungo cammino comune ci troviamo ora così divisi?».
Divisi anche sui “ricordi” a quanto pare: effetti collaterali della foga antirenziana.