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Perché la Cina non riduce le emissioni

Si fa un gran parlare delle responsabilità della Cina a livello climatico e di quel che dovrebbe fare per ridurre le emissioni che alterano gli equilibri climatici, spesso dimenticandosi delle circostanze oggettive che essa deve affrontare per il raggiungimento dei parametri sbandierati dalla retorica occidentale. L’appuntamento di Parigi del prossimo inverno fornisce il pretesto per valutare nel concreto la fattibilità degli impegni presi, più o meno formalmente, dalla super potenza asiatica in ambito energetico. Il quadro che ne emerge, se da una parte rende merito allo sforzo intrapreso dalla Cina negli ultimi anni, dall’altra evidenzia l’incompatibilità tra la sua crescita economica e gli obiettivi di politica energetica sostenibile, almeno nel medio termine.

“Le chiacchiere non cuociono il riso”. Dopo il nulla di fatto di Copenhagen 2009, il proverbio cinese sembrerebbe indirizzato ai paesi che parteciperanno, dal 30 novembre all’11 dicembre 2015 alla Conferenza delle Parti (COP) n. 21 che si terrà a Parigi. Le aspettative che vengono riposte in tale incontro non sono ingiustificate: l’appuntamento ha come “obiettivo principale la definizione di nuovi target di riduzione delle emissioni di carbonio.” In parole povere, ci si aspetta la definizione di nuovi vincoli energetici in quello che potrebbe essere un nuovo protocollo di Kyoto. “Dal punto di vista degli impegni, il 2014 ci ha già consegnato alcune azioni rilevanti. A ottobre, l’UE ha formalmente approvato i propri obiettivi al 2030: taglio delle emissioni di gas serra del 40% avendo il 1990 come anno base, quota delle rinnovabili fino al 27%, miglioramento dell’efficienza energetica del 27%.” Un mese dopo, Cina e Stati Uniti hanno siglato un accordo in cui definiscono, almeno a parole, la volontà di ridurre di oltre il 26% delle emissioni americane e stabilizzare quelle cinesi. Se per gli USA gli obiettivi citati sembrano compatibili con una modesta crescita economica e un avanzato tasso di sviluppo tecnologico, vale la pena chiedersi se la Cina “potrebbe davvero stabilizzare o ridurre le proprie emissioni nell’arco di 15-20 anni.”

Stiamo parlando di un paese che “negli ultimi anni ha registrato tassi medi di crescita economica intorno al 10%, seguiti a ruota dalla crescita della domanda di energia (8%) e dalle emissioni di CO₂ (7,9%).” Con una domanda di energia primaria che al 2012 era soddisfatta per il 68% dal carbone e per il 16% dal petrolio, la Cina ha guadagnato le cronache di tutto il mondo per le immagini di Pechino avvolta dallo smog e i propri cittadini costretti a vivere con le mascherine. In effetti, nonostante il primato storico delle emissioni sia detenuto ancora dagli Stati Uniti, negli ultimi 20 anni la Cina ha prodotto il 68% delle emissioni mondiali, guadagnandosi una nomea tutt’altro che positiva nel mondo occidentale. In realtà, i più autorevoli rapporti energetici indicano come negli ultimi anni la potenza asiatica abbia fatto significativi passi in avanti, intraprendendo un graduale divorzio dal carbone e conquistando il primato mondiale nelle rinnovabili “sia in termini di investimenti che di capacità installata.”

Al fine di testare la verosimiglianza degli obiettivi ambientali che la Cina si pone nel medio termine, gli autori ipotizzano due scenari al 2030 rispetto al 2012, applicando alcune semplici simulazioni di statica comparata. Gli scenari misurano la fattibilità di un obiettivo più cauto, ossia la stabilizzazione delle emissioni, e uno più ambizioso, la loro riduzione del 20%. Entrambi gli scenari vengono testati in presenza di tre diversi tassi di crescita economica (7%, 5%, 3%) e di diversi sviluppi del mix energetico e dell’intensità energetica. I risultati non possono essere definiti confortanti. In particolare, è dimostrata la difficile convivenza tra tassi di crescita economica elevati e riduzione sostanziale delle emissioni. “La riduzione del 20% delle emissioni al 2030 non è infatti compatibile con obiettivi di crescita del reddito uguali o superiori al 5%. Al contrario, la stabilizzazione è moderatamente compatibile con una crescita del reddito del 5%, mentre non lo è con una crescita del 7%. Solo una crescita del PIL del 3% all’anno sembrerebbe essere compatibile con un obiettivo ambizioso di riduzione delle emissioni.” Alla luce di tali esercizi, si comprende “tutta la reticenza cinese ad accettare limitazione alle emissioni totali di gas serra. Agli attuali, seppure rallentati, ritmi di crescita economica (7% circa) ridurre le emissioni come pure stabilizzarle non è possibile.” E tra sviluppo economico e controllo delle emissioni c’è da aspettarsi che i cinesi scelgano la prima opzione. “E ciò è vero per la Cina come per qualsiasi altro paese caratterizzato da crescita vigorosa del reddito.”

L’articolo integrale è stato pubblicato nel numero 2.2015 della Rivista Energia. Per una maggiore completezza dei contenuti e accuratezza dei dati si rimanda alla versione originale; ogni eventuale discrepanza è da attribuirsi alla Redazione delle Rivista Energia.



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