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In ricordo di Francesco Cossiga

Cinque anni orsono, il 17 agosto, si è spento Francesco Cossiga, lasciando un vuoto incolmabile nella politica italiana, oltre che negli affetti di chi lo aveva come Maestro di pensiero. Egli aveva il pregio di dialogare con chiunque avesse qualcosa da dire, innanzitutto in politica, ma anche nella cultura e nell’arte, una caratteristica divenuta rara in Italia e, ancor più, in Europa. Cossiga era curioso, molto dotto e pungente. Lo assisteva una memoria prodigiosa, una preparazione giuridica eccellente, continue letture e una vera passione per l’informatica, il grande strumento dei tempi moderni. In un viaggio che facemmo al sentiero di Campostela, visitando un convento, corresse il priore che gli spiegava la storia della sua comunità che egli conosceva meglio di lui.

I suoi libri, sovente trascurati, sono manuali politici che dovrebbero essere presenti nelle reading list delle Università e oggetto di tesine e tesi di laurea, se non fossimo ormai travolti dall’era twiter, le cui manifestazioni non sono altro che frettolose riflessioni rilevanti come il cinguettio di un uccello. Nel volume sulla Grande riforma mancata (Rubbettino, 2014) vi è la storia d’Italia, tutta quella da lui vissuta e quella che non ha avuto il tempo di vivere, di cui però intravvedeva gli sviluppi. Mi avventuro a dire che, per lui, Tsipras e Varoufakis sarebbero stati oggetto di molta attenzione e, forse, sostegno per la fondatezza delle loro convinzioni e loro disperata ingenuità. Come noto, Cossiga era vicino ai movimenti indipendentisti più disperati. Quando si muoveva in Spagna, il nervosismo del Governo spagnolo per le sue attenzioni agli indipendentisti Baschi andava alle stelle. Ho assistito a una brillante spiegazione delle Brigate rosse fatta a un gruppo di studenti che preparavano una tesi di laurea, che non ho sentito, né ritrovato da nessuna parte.

Proprio partendo dall’attualità dei suoi interessi voglio ricordarlo per la posizione cauta che aveva preso nei confronti del Trattato di Maastricht, almeno per la parte riguardante l’euro, contro la cui adesione mi ero pronunciato, non perché non ritengo necessaria la moneta unica, come ho spiegato più volte, ma perché la Banca Centrale Europea è costruita male e l’Italia non era preparata a partecipare. Oggi è una corsa a ripetere questo giudizio, ma doveva essere detto venticinque anni fa. Egli, oltre me, consultò anche Guido Carli, allora Ministro del Tesoro, e Carlo Azeglio Ciampi, allora Governatore della Banca d’Italia, che lo convinsero del contrario. Poiché essi rappresentavano i veri poteri forti del Paese, Cossiga seguì i loro consigli e si dichiarò favorevole alla delega di sovranità monetaria che si andava ad aggiungere a quella di regolare i mercati, già in atto con il Trattato di Roma. Non credo che l’adesione all’euro potesse essere fatta con legge ordinaria, perché la cessione di sovranità non è consentita dalla Costituzione. Tuttavia Cossiga manifestò alcune cautele fin dal suo messaggio alle Camere del 1988 ponendo il quesito se fosse pronto «il nostro apparato pubblico ad affrontare i problemi in modo tale che il Mercato Comune non sia dominato soltanto dalle grandi forze economiche, ma trovi una regola e una disciplina comune in vista del benessere di tutti in una presenza più efficace dei pubblici poteri?»; come noto l’apparato pubblico e, aggiungerei, quello privato non lo era, anzi è stata una corsa ad assecondare le grandi forze economiche interne e internazionali che poco hanno a cuore le sorti del Paese, debolezza politica che ha purtroppo colpito anche la Banca d’Italia.

Il Messaggio alle Camere del 1991 mostra alcune cautele; Cossiga sottolinea infatti che «Lo straordinario sviluppo economico … la profonda maturazione del popolo italiano e della società civile, i grandi avvenimenti che si sono verificati in Europa in questi ultimi anni [che egli esamina nella prima parte del Messaggio] pongono però in risalto l’inadeguatezza del nostro apparato istituzionale e le difficoltà, da tanti lamentate, che comporta per il Governo, per il Parlamento, per tutte le istituzioni repubblicane il dover affrontare, con gli strumenti oggi a disposizione, i gravi ed incalzanti problemi posti, da un lato, dall’urgenza di adeguarsi alle imminenti scadenze europee e, dall’altro, dalla priorità di por mano a risolvere almeno le più preoccupanti questioni interne, quali la criminalità organizzata (cui è in parte connessa la crisi del “sistema giustizia”), l’indebitamento pubblico, l’ammodernamento dei servizi».

Cossiga, contrariamente alla maggioranza dei gruppi dirigenti, era quindi cosciente che i punti di debolezza dell’Italia erano le istituzioni imperfette e le politiche distorte e che non ci stavamo preparando ad attuare gli impegni che avremmo presi firmando il Trattato di Maastricht. La mia posizione era ed è tuttora che gli accordi contrastavano con i bisogni del Paese e dell’Europa congiuntamente considerata. Perciò, come egli temeva, siamo finiti in balia delle grandi forze economiche, proprio perché «la società economica forse [era] già pronta, anzi certamente [era] già pronta a questa integrazione». Non sapremo mai se le cose sarebbero andate diversamente, se si fosse seguita la via delle riforme da lui suggerita nel Messaggio del 1991, non quelle richiesteci dall’UE.

Con i collaboratori alla Presidenza della Repubblica ho discusso sulla possibilità che Cossiga fosse già informato della rivoluzione politico-istituzionale incombente per iniziativa della Magistratura, nota come “mani pulite”, e che, per questo motivo, lo avrebbe indotto a decidere che era il momento di mettere l’Italia sotto tutela europea, idea che dominava certamente l’azione di Carli. Mi viene detto di no, ma la rete informativa di cui disponeva Cossiga era tale che la risposta non mi convince. Se questa non fosse la ragione, la posizione espressa nel Messaggio alle Camere del giugno 1991 nei confronti del Trattato di Maastricht si potrebbe considerare un suo errore di valutazione, peraltro allora condiviso e tuttora sostenuto da un’intera classe dirigente che, essendo però di secondo livello, seguiva passivamente il corso della storia per continuare a prosperare nella crisi e scrollarsi finalmente di dosso i sindacati dei lavoratori, tacitando le pressioni sociali con i vincoli europei sul bilancio pubblico, ma accrescendo il peso della burocrazia nella vita degli italiani che lo stesso Cossiga, pur abile, non riuscì mai ad alleggerire.


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