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Che cosa è la Digital Tax voluta da Renzi

LA PROPOSTA DI LEGGE CON LE NORME ANTI ELUSIONE FISCALE

LA DIGITAL TAX ANNUNCIATA DA RENZI E SPIEGATA DA QUINTARELLI

Considerato che la potestà impositiva dello Stato è limitata solo entro il suo ambito territoriale, per affrontare fenomeni elusivi online occorre adottare una nuova prospettiva. Internet e il commercio elettronico favoriscono infatti, modalità immateriali di produzione del reddito, caratterizzate dall’assenza di formali confini territoriali.

Il commercio elettronico (in particolare quello diretto) permette di svolgere operazioni, prescindendo da quegli elementi materiali (bene ceduto e luogo dell’attività) che, nel commercio tradizionale, permettono di collegare una attività produttiva di reddito ad un determinato territorio.

Nelle transazioni online è difficile individuare la “territorialità” del venditore e dell’acquirente e perfino il luogo di consumazione del bene. Per colmare tale “gap”, bisognerebbe dunque individuare alcune specifiche priorità: 1) determinare esattamente la residenza fiscale dei soggetti impegnati nel commercio elettronico, dando prioritaria rilevanza al luogo di effettiva direzione dell’impresa; 2) individuare il luogo di riferimento di erogazione dei servizi, che rileverà in particolare laddove non si limiti a svolgere attività ausiliarie e preparatorie dell’impresa (quali raccolta dati, servizio informazioni, pubblicità, eccetera), ma funzioni principali, afferenti al business dell’impresa e permanga per un sufficiente periodo di tempo in un determinato luogo.

Come impedire dunque, in un tale contesto, una facile elusione? Relativamente alla scelta del soggetto con cui interfacciarsi ai fini dei controlli sul corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, occorre partire dalla considerazione che nel mercato telematico, caratterizzato dall’ingresso di nuove e multiformi imprenditorialità soprattutto nel campo dei servizi ausiliari al commercio elettronico, i soggetti che svolgono un ruolo preminente sono sostanzialmente tre: i fornitori, le banche e le istituzioni finanziarie ed infine i clienti. Insomma, il ruolo centrale tradizionalmente assunto dai pagamenti, anche come prova del passaggio della proprietà, sembra essere fondamentale anche relativamente al commercio elettronico. E per tutti questi motivi la disciplina IVA sul commercio elettronico, come detto, è stata finalmente rivoluzionata.

L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico elenca le seguenti caratteristiche dell’economia digitale: • mobilità, relativa: (a) agli intangibles sui quali l’economia digitale fonda essenzialmente le proprie basi; (b) agli utenti e (c) alla localizzazione delle funzioni operative dell’impresa; • uso massivo di dati, personali e non, concernenti consumatori, fornitori od operazioni; • effetto network, il quale si crea grazie alle interazioni e alle sinergie tra gli utenti; • presenza di cd. multi-sided business models, ovverosia l’intersezione e la complementarietà delle attività svolte dalle imprese e dei loro prodotti; • tendenza a creare monopoli od oligopoli; • volatilità, generata dalla rapidità della innovazione tecnologica e dalla ridotta sussistenza di barriere all’ingresso per le nuove imprese nel settore.

Pericolosi fenomeni di pianificazione fiscale, nell’ambito dell’economia online, generano una significativa erosione della base imponibile, mediante l’artificioso trasferimento dei profitti generati dalle grandi multinazionali in Paesi a fiscalità ridotta o nulla. Le nuove regole di tassazione al vaglio dell’OCSE produrranno a tal fine rilevanti effetti anche sul regime impositivo da applicare ai compensi pagati per l’uso o la concessione in uso di un diritto d’autore su prodotti informatici da parte dei distributori italiani alle software house estere, per effetto della loro qualificazione come royalties.

La corretta tassazione dei profitti generati dallo sfruttamento dei diritti di proprietà intellettuale (cd. “I.P.R.”) rappresenta infatti una delle priorità fissate dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico nel piano d’azione denominato “Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting (BEPS)”, avviato nel 2013. Nel piano d’azione BEPS viene altresì ribadito che nella nuova economia globalizzata una parte significativa dei profitti viene generata dallo sfruttamento dei cd. “beni intangibili”, che tuttavia risultano spesso difficilmente “valorizzabili”, nonché agevolmente trasferibili da una giurisdizione all’altra, con ciò generando evidenti ricadute in ambito fiscale, connesse alla difficoltà di quantificare i valori tassabili (anche in un’ottica di transfer pricing, nell’ambito di transazioni intercompany) e, da ultimo, identificare il Paese in cui i medesimi devono essere (in tutto o in parte) assoggettati ad imposizione. In particolare, con la pubblicazione nel mese di marzo 2014 del documento “BEPS Action 1: address the Tax Challenges of the Digital Economy”, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha posto l’accento sulla necessità di introdurre misure condivise, dirette a contrastare la diffusione di tali strategie di tax planning, che generano l’erosione della base imponibile nei Paesi a fiscalità ordinaria, individuando possibili opzioni dirette a risolvere le emergenti problematiche in ambito fiscale.

Anche la Commissione Europea ha del resto ritenuto di affrontare il tema, nominando l’Expert Group on Taxation of the Digital Economy (Decisione della Commissione Europea del 22 Ottobre 2013, C(2013)7082), con il compito di analizzare le possibili tecniche di tassazione dell’economia digitale, identificando le principali questioni irrisolte al riguardo e proponendo una serie di soluzioni, in un percorso parallelo e coordinato con quello seguito dall’OCSE.

Imposte dirette

In relazione all’imposizione diretta, in particolare, il primo problema concerne comunque la possibilità da parte dell’impresa di evitare di configurare il criterio di collegamento territoriale che giustifica l’imposizione sui redditi di impresa nello stato della fonte. L’elevatissimo grado di dematerializzazione dell’industria online ha reso estremamente più semplice per una società evitare di rendersi una taxable presence – attraverso una stabile organizzazione – nel territorio dello Stato presso il cui mercato è attiva. La stessa caratteristica della dematerializzazione solleva, a detta dell’OCSE, una seconda problematica, che riguarda la possibilità per le imprese del settore digitale di ridurre e suddividere le funzioni, gli asset ed i rischi presso il territorio di più Stati al fine di diminuire il reddito ivi prodotto. In particolare, l’elevata presenza di intangibles altamente remunerativi favorisce ulteriormente il trasferimento infragruppo degli stessi allo scopo di minimizzare il carico fiscale. Ancora, qualora la taxable presence nel territorio dello Stato dove un’impresa è attiva possa essere configurata – nella forma di stabile organizzazione – un’ulteriore tecnica di erosione della base imponibile consiste nella massimizzazione delle deduzioni per i pagamenti effettuati nei confronti dello stesso head office o ad altre imprese del gruppo sotto forma di interessi, royalties, service fees o facendo ricorso ad hybrid mismatch arrangements; oppure, evitando la soggezione a ritenute per pagamenti ricevuti da soggetti residenti presso la market jurisdiction, sfruttando l’interposizione di shell companies localizzate in paesi che godono di regimi convenzionali privilegiati. Anche per tali motivi, nella legge delega per la riforma fiscale (legge 11 marzo 2014, n. 23) è stata espressamente prevista l’introduzione di sistemi di tassazione delle attività transnazionali, ivi comprese quelle connesse alla raccolta pubblicitaria, basati su adeguati meccanismi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale, tenendo conto delle raccomandazioni degli organismi internazionali e delle eventuali decisioni assunte in ambito comunitario, nonché di analoghe esperienze maturate in altri Paesi. Una delle opzioni finora allo studio da parte dell’OCSE all’interno del citato Piano d’azione sull’erosione fiscale e sul fenomeno del Profit Shifting, è del resto rappresentata dall’applicazione di una ritenuta alla fonte sulle “transazioni digitali” (Cfr. Public Discussion Draft – BEPS Action 1: Address the tax challenges of the digital economy, Cap. VII (Potential options to address the broader tax challenges raised by the digital economy), par. 3.4 (Creation of a Withholding Tax on Digital Transactions), OECD, 2014). In sostanza, si tratta di una ritenuta alla fonte ai pagamenti effettuati da soggetti residenti in un Paese, all’atto dell’acquisto di prodotti o servizi digitali presso un e-commerce provider estero. Nell’ambito della economia immateriale è infatti oramai possibile penetrare in un mercato locale, senza dover necessariamente mantenere una presenza fisica nel singolo Paese, tale da rendere tassabili in tale Stato i profitti dell’impresa immateriale, sulla base delle vigenti regole in tema di stabile organizzazione (vedi art. 5 del Modello di Convezione OCSE contro le doppie imposizioni). Non potendo però i consumatori finali operare da sostituti di imposta, l’unica soluzione per l’applicazione di tale ritenuta alla fonte comporterebbe il coinvolgimento diretto delle istituzioni finanziarie incaricate di regolare il relativo pagamento degli acquisti online. Si potrebbero dunque prevedere le seguenti disposizioni: • la qualificazione come royalties dei corrispettivi pagati da operatori nazionali ai produttori di programmi informatici (cd. Software House) non residenti, a fronte dell’acquisto di licenze software ed altri beni digitali successivamente distribuite sul mercato italiano; • l’applicabilità nel caso di specie, per operatori persone fisiche, delle ritenute alla fonte previste dall’articolo 25, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973, in combinato disposto con l’articolo 23, comma 2, lettera c), del Testo unico delle imposte sui redditi. L’articolo 25, comma 4, del D.P.R. 600/1973 prevede infatti l’applicazione della ritenuta ordinaria del 30% sui compensi corrisposti a fronte dell’utilizzazione economica di opere dell’ingegno, marchi, brevetti industriali, processi, formule o informazioni relative a esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, anche se conseguite nell’esercizio di impresa (cd. canoni, ovvero in ambito internazionale, royalties). L’adozione del regime di tassazione ordinaria delle royalties pagate a non residenti è subordinata alla mancata applicabilità delle più favorevoli condizioni previste: • dalla Direttiva comunitaria n. 2003/49/CEE, che prevede l’esenzione dall’applicazione di ritenute; • dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia, laddove è prevista l’applicazione di una ritenuta ridotta, oppure, in taluni casi, la totale esenzione. Al fine dunque di individuare il corretto regime impositivo dei compensi pagati per l’acquisto di licenze software ed altri beni digitali da parte di distributori nazionali, occorre verificare se i medesimi, in base all’articolo 12 del Modello di Convenzione OCSE ed al relativo Commentario aggiornato, rientrino effettivamente nella categoria delle royalties, laddove, sulla base del Modello di Convenzione OCSE, rientrano nella categoria delle royalties tutti i compensi di qualsiasi natura corrisposti per l’uso o la concessione in uso di un diritto d’autore su opere letterarie, artistiche o scientifiche, ivi comprese le pellicole cinematografiche e le registrazioni per trasmissioni radiofoniche e televisive, di brevetti, marchi di fabbrica o di commercio, disegni o modelli, progetti, formule o processi segreti, nonché per l’uso o la concessione in uso di informazioni concernenti esperienze di carattere industriale, commerciale o scientifico. Come del resto indicato al sotto-paragrafo 13.1. del Commentario all’articolo 12 (royalties) del Modello di Convenzione OCSE, nella versione aggiornata nel mese di giugno 2010, “i corrispettivi per l’acquisizione del diritto limitato di sfruttamento del copyright (senza cioè che il dante causa ceda nella sua interezza la titolarità del diritto di proprietà intellettuale) configurano royalties laddove il prezzo pattuito attribuisca al cessionario un diritto di utilizzo del programma tale per cui – in assenza di concessione di detta licenza d’uso – il diritto di proprietà intellettuale sarebbe risultato leso”. Al successivo sotto-paragrafo 14.4 del Commentario al medesimo articolo del Modello, è stato poi però specificato che l’attività di distribuzione di software generalmente non determina l’erogazione di royalties, qualificandosi i relativi corrispettivi come utili d’impresa, tassati (ai sensi dell’art. 7 del Modello OCSE) nel Paese di residenza dell’impresa percettrice, fatta salva l’eventuale presenza di una stabile organizzazione nel Paese di residenza del soggetto pagatore. Con riguardo però al contenuto del citato paragrafo 14.4. del Commentario all’articolo 12 del Modello OCSE, il successivo paragrafo 31.2. contiene una riserva espressa dall’Italia circa il criterio adottato per escludere dalla categoria delle royalties i compensi derivanti dalla distribuzione di prodotti software, laddove è stato chiarito che il nostro Paese non applicherà tout court tale criterio, riservandosi di esaminare ogni singolo caso tenendo conto di tutte le circostanze, compresi i diritti concessi in relazione agli atti di distribuzione. In sostanza, l’Italia non ha aderito (non essendovi obbligata) alla posizione espressa dall’OCSE con riguardo alla mancata qualificazione come royalties dei compensi derivanti dalla distribuzione di programmi software ed altri beni digitali. Piuttosto, relativamente a tali componenti di reddito, la posizione assunta dall’Italia è stata chiarita con la risoluzione n. 128/E del 3 aprile 2008, che ha qualificato i proventi corrisposti al titolare dell’attività immateriale come royalties. In sostanza, si conferma la qualificazione sotto forma di royalties da parte dell’Italia dei compensi corrisposti per l’acquisizione di diritti parziali sul diritto d’autore – quand’anche a fronte di attività di mera distribuzione – da parte di soggetti residenti a beneficiari non residenti, ai fini dell’applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni dalla medesima sottoscritti con gli Stati contraenti esteri. Per i soggetti societari la misura di contrasto dovrebbe però principalmente passare attraverso una nuova definizione di stabile organizzazione e l’introduzione di una norma espressa di contrasto al fenomeno delle stabili organizzazioni occulte. Per gli stessi soggetti societari, di cui all’articolo 73, comma1, lettera d), del Tuir, laddove scattasse dunque, come nella proposta in esame, la presunzione di stabile organizzazione occulta, si potrebbe da subito applicare una ritenuta del 25%. La ritenuta del 25% tiene conto del fatto che, laddove avessero in Italia una stabile organizzazione, potendo calcolare la base imponibile sulla base di costi e ricavi l’imposta da pagare, seppur con la più alta aliquota del 27,5% sarebbe più bassa. Resta inteso che questa misura, anche per motivi di compatibilità con Convenzioni Ocse, dovrebbe comunque restare una previsione di chiusura del sistema, applicabile in casi residuali. Dato che il fenomeno di cui stiamo parlando si inquadra in effetti nel fenomeno delle stabili organizzazioni occulte, è su tale fronte che bisogna operare, prevedendo una definizione più puntuale di stabile organizzazione che recepisca anche il concetto di stabile organizzazione virtuale ed introducendo una specifica previsione antielusiva, che comunque individui (agevolando l’azione accertativa dell’Amministrazione finanziaria, con una norma di diritto positivo, che dia comunque anche certezza ai contribuenti) una stabile organizzazione occulta in Italia, laddove si svolgano un rilevante numero di transazioni per un rilevante periodo temporale (individuando così il concetto di permanenza, rilevante ai fini dell’imposizione): quella “presenza digitale significativa” di cui parla la stessa Ocse ai fini del contrasto di tali tipi di fenomeni evasivi.

Imposte indirette

Spostando invece l’attenzione al settore dell’imposizione indiretta, le opportunità di tax planning in materia di Iva possono verificarsi nel caso in cui una delle parti della transazione sia un soggetto passivo con limitato diritto di detrazione. In particolare, si pensi al caso in cui tali soggetti acquistino servizi elettronici da imprese residenti in Stati che non prevedono imposte sul valore aggiunto, oppure prevedono aliquote d’imposta minori, oppure quello della sub-licenza di software tra stabili organizzazioni dell’head office ed il medesimo head office, volta ad aggirare le limitazioni del diritto di detrazione in capo a determinate articolazioni dell’impresa. Inoltre, il commercio elettronico cross-border di beni e servizi pone problemi quanto all’applicabilità dell’imposta sul valore aggiunto anche nel caso in cui questi siano acquistati da consumatori finali e, ai fini della tassazione sul consumo, si applichi la legislazione del Paese di residenza del supplier, con possibili arbitrarie fissazioni di sedi dell’impresa in Paesi ad IVA ridotta. Tali arbitraggi possono però essere affrontati solo in sede accertativa.

Conclusioni OCSE e proposte di contrasto

In conclusione l’OCSE propone alcune modifiche all’art. 5 del Modello di convenzione, di modo da “adattarlo” al fenomeno del commercio elettronico, magari creando un nuovo criterio di collegamento basato su “una presenza digitale significativa” dell’impresa nell’economia del territorio di uno Stato diverso da quello di residenza, oppure elaborando un concetto autonomo di “stabile organizzazione virtuale”, che si basi ad esempio sulla disponibilità di un sito internet, oppure sulla conclusione di contratti per il tramite di un agente che agisca con mezzi di tecnologia informatica. Accanto agli interventi sulla definizione e sul concetto di permanent establishment, l’OCSE suggerisce poi la già citata opzione di imporre una ritenuta a titolo di imposta sui pagamenti effettuati da soggetti residenti in un determinato Stato come corrispettivo di beni digitali o di servizi prestati da impresa di e-commerce non residente. Quello che va introdotto è dunque anche un nuovo concetto di stabile organizzazione ai fini del commercio elettronico. E a ben vedere non potrebbe essere altrimenti, visto che quando si deve individuare materialmente la “stabile organizzazione” in rapporto al fenomeno del commercio elettronico “diretto”, bisogna prendere atto del fatto che l’operazione commerciale viene svolta interamente con modalità telematica. Il prodotto immateriale scambiato, quindi, non si materializza mai in un qualcosa di tangibile e, pertanto, la compravendita da e-commerce si configura sempre e solo come prestazione di servizi e giammai come una cessione di beni, in quanto nessun bene viene materialmente consegnato al cliente. L’articolo 162, comma 5, del Tuir, peraltro, stabilisce che “non costituisce di per sé stabile organizzazione la disponibilità a qualsiasi titolo di elaboratori elettronici e relativi impianti ausiliari che consentono la raccolta e la trasmissione di dati ed informazioni finalizzati alla vendita di beni e servizi”. Il comma 5 propone quindi una visione solo parziale del fenomeno del commercio elettronico. L’obiettivo è dunque una parte rilevante di quei circa 11 miliardi di euro (di imponibile) dell’ecommerce (dati per il 2013 del Politecnico di Milano) che per l’80% sfuggono al controllo del Fisco. Va però tenuto ben presente che le tasse sono dovute nel paese dove sono generati i ricavi. La ripartizione, lo “aportionment”, è facile a dirsi, meno a farsi. La proposta per una base imponibile comune e consolidata per i redditi d’impresa (che allocherebbe quote predefinite dei profitti delle imprese ai diversi paesi, in vista della tassazione alle aliquote nazionali) e l’idea di un’imposizione sul reddito destination-based (prelevata, cioè, non dove ha luogo la produzione, ma dove si verifica il consumo) sono comunque ipotesi di partenza già molto più sofisticate delle ipotesi già avanzate in passato. E’ dunque necessario associare l’imposizione fiscale ai territori nei quali viene generato il valore, introdurre delle misure transitorie legate al monitoraggio dei flussi informativi raccolti localmente e soprattutto combattere il profit shifting. E’ importante esaminare come le imprese dell’economia digitale aggiungano valore e creino i loro profitti al fine di determinare se e in quale misura può essere necessario adattare le norme vigenti al fine di tener conto delle caratteristiche specifiche di tale settore. Dal 1° gennaio 2014, in ogni caso, le imprese e i professionisti che acquistano beni e servizi online sono obbligati ad effettuare le transazioni esclusivamente mediante bonifico bancario o postale dal quale devono risultare i dati identificativi del beneficiario ovvero con altri mezzi di pagamento tracciabili che siano in grado di veicolare la partita Iva del beneficiario. Inoltre, in tema di stabile organizzazione e tracciabilità dei profitti, le società operanti nel settore della raccolta di pubblicità online e dei servizi ad essa ausiliari sono tenute a utilizzare indicatori di profitto diversi da quelli applicabili ai costi sostenuti per lo svolgimento della propria attività, fatto salvo il ricorso alla procedura di ruling di standard internazionale di cui all’articolo 8 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326.

Web tax o Tassa antielusione

Il termine Web Tax appare comunque fuorviante, meglio sarebbe parlare di tassa antielusione, in quanto non si fa riferimento ad una nuova tassa, ma si tratta di un insieme di accorgimenti che mirano a regolare e ridurre il fenomeno del “profit-shifting” e dell’elusione fiscale nell’economia digitale. Con l’articolo 1, comma 33, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Legge di stabilità 2014), il legislatore aveva introdotto nel D.P.R. n. 633/1972 l’articolo 17-bis, che prevedeva l’obbligo di attivazione di una partita Iva in Italia per gli operatori pubblicitari operanti sul web; tuttavia, tale disposizione è stata tempestivamente abrogata dall’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legge 6 marzo 2014, n. 16 (c.d. “Decreto Salva Roma Ter”), convertito con modificazioni dalla legge 2 maggio 2014, n. 68. Resta fermo, come detto, l’obbligo di effettuare tali acquisti provvedendo al pagamento mediante bonifico bancario o postale dal quale devono risultare anche i dati identificativi del beneficiario, ovvero con altri strumenti di pagamento idonei a consentire la piena tracciabilità delle operazioni e a veicolare la partita Iva del beneficiario. La permanenza di tale previsione consente all’Amministrazione finanziaria italiana di costituire un data base per monitorare l’entità delle transazioni commerciali realizzate in territorio nazionale da noti operatori esteri, che, proprio grazie alla sapiente allocazione dei redditi in Paesi a fiscalità ridotta, resa possibile dalle nuove tecnologie offerte dall’economia digitale e dall’adozione di schemi di pianificazione fiscale aggressiva, sono finora riusciti a sottrarre a tassazione i propri profitti nei Paesi in cui li hanno realizzati. In tale contesto, una delle opzioni finora allo studio da parte dell’OCSE all’interno del citato Piano d’azione sull’erosione fiscale e sul fenomeno del Profit Shifting, attraverso il quale le imprese multinazionali riescono a trasferire quote rilevanti dei propri profitti in giurisdizioni a bassa fiscalità, specialmente sfruttando la mobilità degli asset intangibili, è rappresentata, come detto, dall’applicazione di una ritenuta alla fonte sulle “transazioni digitali”. Una tale soluzione sembra peraltro la più ragionevole e agevole da realizzare. In sostanza, si tratterebbe di applicare una ritenuta alla fonte ai pagamenti effettuati da soggetti residenti in un Paese, all’atto dell’acquisto di prodotti o servizi digitali presso un e-commerce provider estero. L’adozione di tale misura trova però il suo principale ostacolo nelle potenziali difficoltà ad assoggettare a tassazione le cessioni di prodotti digitali effettuate direttamente nei confronti dei consumatori finali (che non possono operare da sostituti). Pertanto, una soluzione potrebbe consistere, come detto, nel coinvolgimento diretto delle istituzioni finanziarie incaricate di regolare il relativo pagamento degli acquisti online (quali, ad esempio, gli operatori finanziari che gestiscono strumenti di pagamento elettronico e carte di credito), a cui dovrebbe essere affidato il compito di segnalare la presenza di stabili organizzazioni occulte e poi di applicare la tassazione delle transazioni digitali, trasferendo all’Erario il gettito derivante dall’applicazione della ritenuta. Alle stesse Istituzioni spetterebbe dunque il compito, al superamento delle “soglie di permanenza” individuate nella proposta in oggetto e che possono far individuare la stabile organizzazione occulta, di effettuare la dovuta segnalazione all’Amministrazione finanziaria, affinchè questa possa procedere alla relativa istruttoria. La logica sottesa a questa impostazione è da ricercarsi nella natura dell’attività svolta caratterizzata comunque da un labile collegamento con il territorio nazionale (è il caso assimilabile a quello degli artisti stranieri che percepiscono elevati compensi con un ridotto soggiorno in Italia ). La normativa italiana dispone, dunque, che, pur in assenza di una stabile organizzazione nel territorio italiano o di un periodo di permanenza minimo, i redditi conseguiti siano da considerare come imponibili nello Stato in cui la prestazione è effettuata, anziché in quello di residenza. Tale modus operandi risponde, infatti, a delle esigenze antielusive e di cautela fiscale in quanto se il reddito fosse assoggettato a tassazione soltanto nello Stato di residenza sarebbe facile effettuare un risparmio di imposta localizzando i redditi in uno Stato caratterizzato da una bassa pressione fiscale. Si tratterebbe quindi di introdurre una disposizione antielusiva (dato che è di elusione che stiamo parlando) che stabilisca che quando il reddito derivante dall’attività svolta dalla digital company operante in Italia sia imputato ad un società estera, i relativi redditi possono comunque essere tassati nello Stato in cui è erogata la prestazione, salvo il riconoscimento di un credito tendenzialmente pari alle imposte assolte all’estero sul medesimo reddito. La suddetta proposta, peraltro, sembra molto più agevole rispetto a quelle ad oggi ipotizzate in Italia, compresa l’ultima in tema di cosiddetta bit tax, concepita addirittura come un’imposta planetaria sulla quantità dei dati trasmessi via internet e basata sul numero di byte utilizzati, con aliquote differenziate a seconda della dimensione o del fatturato del contribuente e che dunque richiederebbe l’accordo di tutti gli Stati, con devoluzione degli introiti ad una sorta di Fondo internazionale. Ugualmente irragionevoli o più complesse da realizzare sono le soluzioni adottate in alcuni Stati europei, come quelle concernenti una sorta di accisa sulla quantità consumata (tot centesimi di euro ogni gigabyte) in Ungheria, o imposte ad valorem sui dati consumati (1% sul valore dei montanti fatturati a fini pubblicitari) in Francia, o il pagamento di un canone da parte dei produttori digitali in Spagna.

Intermediari finanziari e tassa antielusione

Coinvolgere nel sistema di riscossione della “digital tax” gli intermediari finanziari non appare un problema. Del resto è già stato anche fatto con l’articolo 4, comma 2, del decreto legge n. 167/90, convertito con modificazioni dalla legge n. 227 del 1990, (comma poi abrogato dall’articolo 4, comma 2, del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89), che aveva introdotto per gli intermediari finanziari l’obbligo ad effettuare una ritenuta del 20% sui bonifici in arrivo dall’estero alle persone fisiche. Le disposizioni applicative erano contenute nel provvedimento n. 2013/151663 del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 18 dicembre 2013 (e possono essere utili anche ai fini dell’individuazione dei compiti di segnalazione). La trattenuta doveva essere versata ogni 16 del mese successivo all’ all’effettiva percezione della somma. La norma determinava di fatto la comparsa di una piccola tassa antielusione, rivolta però ai piccoli contribuenti. Chiunque possedesse infatti un sito internet “amatoriale”, nel senso di non riconducibile ad attività professionale, e vendesse pubblicità, per esempio tramite Google Adsense, era di fatto assoggettato alla nuova normativa, subendo la ritenuta d’acconto del 20% sui bonifici in entrata pagati da Google Ireland Limited e dovendo quindi inserire questi importi in dichiarazione dei redditi. In questo modo venivano gravati i privati che realizzavano “reddito” su base occasionale e non professionale attraverso vendita di spazi pubblicitari sul proprio sito web. Scopo dell’introduzione della ritenuta del 20% sui bonifici dall’estero era naturalmente ben altro, ma questo era un effetto collaterale minore, non a carico dei colossi del web, che operano tramite controllate all’estero, bensì degli utilizzatori non professionali. Con la nuova modalità di tassazione, invece, per rendere il quadro della modifica, le multinazionali con sede all’estero dovrebbero scegliere se subire un prelievo del 25% sui ricavi ottenuti in Italia o se, a fronte del rischio automatico di segnalazione della presenza digitale da parte degli stessi intermediari, dichiarare la stabile organizzazione, facendo un bilancio vero con i ricavi qui realizzati e la quota di costi consolidati attribuibile.

Conclusioni

In conclusione, il soggetto straniero che svolge attività nel nostro Paese, sia sotto forma individuale, sia tramite impresa, deve essere tassato in Italia se nel nostro territorio abbia una stabile organizzazione, anche occulta. Il requisito della territorialità (e quindi l’obbligo dell’imposizione) deve sussistere dunque, in tali casi, per presunzione, in caso di superamento di determinate soglie temporali e di volume d’affari, per tutti i compensi corrisposti da soggetti residenti nel territorio dello Stato. La proposta normativa, oltre a modificare la definizione di stabile organizzazione, in linea con l’evoluzione del concetto sia in sede Ocse che comunitaria, dispone, dunque, che, pur in assenza di una stabile organizzazione formale nel territorio italiano, i redditi conseguiti, laddove vi sia una prova di “permanenza digitale”, siano da considerare come imponibili nello Stato in cui la prestazione è effettuata, anziché in quello di residenza. Tale modus operandi risponde, infatti, a delle esigenze antielusive e di cautela fiscale in quanto se il reddito relativo alla prestazione resa via web fosse assoggettato a tassazione soltanto nello Stato di residenza del prestatore sarebbe facile (come avviene oggi) effettuare un risparmio di imposta localizzando i redditi in uno Stato caratterizzato da una bassa pressione fiscale. Ancora, in senso analogo, la Risoluzione n. 110/E dell’8 maggio 1997, dove si fa presente “che la maggior parte delle Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni sui redditi stipulate dall’Italia individua, in accordo con il modello di Convenzione elaborato in sede OCSE, delle categorie generali di reddito in relazione alle quali è ripartito tra gli Stati contraenti il potere impositivo. Per i redditi degli artisti e degli sportivi” (ma discorso analogo, per le motivazioni sottese alla previsione, può essere fatto nel caso di specie) “viene prevista la tassazione nel Paese dove la prestazione è svolta. Le Convenzioni vigenti fra Italia e Gran Bretagna, Germania, Austria, Francia e Ungheria, conformemente al descritto principio OCSE, contengono una disposizione specifica … Più precisamente l’art. 17 delle predette Convenzioni, nel paragrafo 1, stabilisce che i redditi stessi sono imponibili nello Stato in cui l’attività è esercitata, … Il presupposto per l’imposizione di tali redditi discende, pertanto, dalla natura dell’attività obiettivamente considerata, e dal luogo in cui viene svolta …”. Si tratta chiaramente di una disposizione antielusiva che stabilisca che, in presenza di determinati presupposti, i relativi redditi possono comunque essere tassati nello Stato in cui è erogata la prestazione. Al fine poi di attenuare la doppia imposizione internazionale dei redditi conseguiti dai soggetti in esame il Commentario OCSE suggerisce di adottare il metodo del credito d’imposta, in base al quale il reddito di fonte estera conseguito dal soggetto residente all’estero è comunque imponibile nello Stato di residenza, salvo il riconoscimento di un credito tendenzialmente pari alle imposte assolte all’estero (nel nostro caso in Italia) sul medesimo reddito. A mero titolo esemplificativo, l’articolo 24 della Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni (che poi ricalca il tenore della maggioranza dei Trattati bilaterali stipulati dall’Italia), prevede quale meccanismo per eliminare la doppia imposizione il credito d’imposta, così come espressamente previsto: “l’imposta italiana dovuta ai sensi della legislazione italiana conformemente alla presente convenzione, sia direttamente che per detrazione, sugli utili o redditi provenienti da fonti site in Italia … è ammessa in deduzione dall’imposta del Regno Unito calcolata sugli stessi redditi per i quali è stata calcolata l’imposta italiana”. Laddove infatti un reddito percepito da un soggetti residente di un altro Paese, a corrispettivo della prestazione resa in Italia, venga assoggettato a tassazione sia in Italia (quale Paese della fonte) sia nello Stato di residenza, si verifica una potenziale doppia imposizione giuridica, per effetto di una potestà impositiva spettante: • al paese di residenza del soggetto (poniamo il Regno Unito), che vanta il diritto di tassare la globalità dei redditi percepiti dal soggetto, in virtù del principio di tassazione su base mondiale, ivi compresi i compensi fatturati in relazione all’attività prestata in Italia; • allo Stato italiano, quale Paese della fonte (ossia dello Stato nel quale è svolta l’attività che genera i relativi redditi) che ha diritto di tassazione limitatamente ai redditi ivi percepiti. La predetta doppia imposizione (a carico del percipiente estero) potrà essere, come detto, eliminata nel Paese di residenza (nell’esempio fatto, il Regno Unito) attraverso il meccanismo del credito d’imposta per le imposte assolte in Italia sullo stesso reddito. Come clausola di salvaguardia si prevede infine il rinvio alle previsioni di cui all’articolo 8 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, come modificato dall’articolo 7 del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9. La scelta è in linea con la volontà del Legislatore di intendere il controllo di tipo tradizionale come un momento eventuale del rapporto con il Contribuente, favorendo forme di interlocuzione avanzata, tese ad esplicitare la pretesa erariale attraverso moduli consensuali e partecipativi. Tra i principali ambiti di operatività degli accordi preventivi vi è del resto anche la valutazione della sussistenza dei requisiti che configurano o meno una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato ovvero all’estero e dell’individuazione, nel caso concreto, della disciplina e delle norme, anche di origine convenzionale, concernenti l’erogazione o la percezione di dividendi, interessi, royalties e altri componenti reddituali a o da soggetti non residenti.

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