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Ecco sbuffi (e infortuni) di Renzi sul Senato

Per quanto generosamente minimizzato da giornaloni e giornali, è stato clamoroso l’infortunio costituzionale nel quale è incorso davanti alla direzione del Pd il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che ha detto, testualmente: “Si dovrebbero convocare Camera e Senato” nel caso di un “fatto inedito” come la decisione del presidente Pietro Grasso, appesa per aria da mesi, di ammettere nell’aula di Palazzo Madama la modificabilità dell’articolo della riforma del bicameralismo che stabilisce l’elezione indiretta dei nuovi senatori, da parte cioè dei Consigli regionali.

Al Quirinale e nei palazzi parlamentari è mancato il fiato e sono impazziti i telefoni, essendo consentito il ricorso alle Camere in seduta comune solo per eleggere, nell’ordine, il presidente della Repubblica, i consiglieri superiori della magistratura e i giudici costituzionali di spettanza parlamentare. E’ tutto stabilito negli articoli 55, 83, 85 e 135 della Costituzione.

Neppure lo stato di guerra, la cui “dichiarazione” spetta al presidente della Repubblica, comporta necessariamente una seduta congiunta delle Camere, parlando l’articolo 87 di “stato di guerra deliberato dalle Camere”, e basta. Senza la precisazione della “seduta comune” prevista dall’articolo 55.

La pezza che Renzi, con le linee telefoniche roventi, ha poi messo durante il dibattito alla direzione, precisando di avere voluto ipotizzare solo una riunione congiunta dei gruppi parlamentari del Pd, ha creato un altro caso.

I telespettatori di Porta a Porta hanno sicuramente notato l’imbarazzo, a dir poco, dello sbiancato vice segretario del Pd Lorenzo Guerini quando nella ipotesi di una riunione congiunta dei gruppi parlamentari è stata vista la minaccia di una crisi di governo, se Grasso dovesse veramente ammettere la votazione di proposte di modifica all’elezione indiretta dei nuovi senatori.

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Ancora più in imbarazzo si è trovato il vice segretario del Pd Guerini quando l’editorialista ed ex vice direttore della Stampa Marcello Sorgi gli ha fatto notare il pasticcio che comunque attende l’elezione del nuovo Senato nel caso di un’intesa all’ultimo momento con la minoranza del Pd su un listino da far votare dagli elettori per “designare” i consiglieri regionali da spedire anche a Palazzo Madama.Il pasticcio, non si sa fino a che punto seriamente componibile con una norma transitoria, deriva dal fatto che a concorrere nel 2018, o prima, alla formazione del nuovo Senato dovranno essere anche le numerose e popolose regioni nelle quali si è già votato quest’anno per i Consigli. Che scadranno pertanto dopo l’elezione del Senato riformato.

In quelle regioni – dal Veneto alla Liguria, dalla Toscana all’Umbria, dalle Marche alla Campania e alla Puglia – come farebbero i cittadini a eleggere o “designare”, come preferisce dire il governo per tenere il punto dell’elezione indiretta, i consiglieri regionali destinati a fare anche i senatori? Sarebbero condannati a saltare il primo turno, rimettendosi alle decisioni dei rispettivi Consigli regionali, o sarebbero convocati anch’essi alle urne per “designare” i consiglieri senatori del loro territorio?

La riforma del Senato, come si vede, rischia di tradursi in una matriosca, non di bambole ma di pasticci.

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I fatti rischiano di dare ragione alle raccomandazioni alla prudenza rivolte a Renzi, proprio in vista della riunione della direzione, dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. Raccomandazioni rilanciate, con grande fastidio di Renzi, dal deputato del Pd Alfredo D’Attorre, fra i più ostinati e vivaci dissidenti dalla riforma del Senato proposta dal governo.

Fonti attendibili, e interne al Corriere, attribuiscono l’editoriale critico del direttore Fontana, in qualche modo in sintonia con il predecessore Ferruccio de Bortoli, al fastidio procuratogli dalla insofferenza mostrata dal presidente del Consiglio a vari livelli per taluni commenti polemici verso il governo che continuano ad uscire, anche nella nuova gestione, sul giornale di via Solferino. A cominciare, proprio sulla riforma del Senato,  da quelli del brillante costituzionalista Michele Ainis.

Il commento di prima pagina alla direzione del Pd, conclusasi con la diserzione della minoranza dalla votazione finale, è stato invece affidato a Francesco Verderami. Che non ha visto “un solo motivo che giustifichi l’attacco pubblico di Renzi a Pietro Grasso”. Il quale, dal canto suo, alla sostanziale diffida del governo dal riaprire il principio dell’elezione indiretta dei senatori ha reagito ricordando ai suoi collaboratori che non si è mai lasciato intimidire neppure dalla mafia, quando doveva contrastarla come magistrato.

L’autunno è politicamente grasso e caldo.


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