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Eni e raffinerie, che succede in Italia e all’estero

Che succede alle raffinerie? Dal 2009 ne sono state chiuse 11 a livello europeo e altre 15 stanno lì per abbassare la serranda. Ecco come, perché e quali sono alcuni dei progetti in corso per una riconversione industriale.

IN USA E’ TROPPO

La crisi delle raffinerie ha due facce. La prima deriva da fatti noti quali la forte riduzione della domanda di prodotto, crollata del 13% nel periodo 2005-2014; l’aumento del costo dell’energia rispetto ai concorrenti di mercato; il tasso di cambio euro-dollaro per anni molto vantaggioso (non per noi).

La seconda è quella che racconta di una crisi delle sole raffinerie europee: quelle del Nord America, per esempio, scoppiano. Nel periodo estivo -causa viaggi e condizionatori- le lavorazioni negli Usa hanno accelerato al punto da utilizzare in media il 96,1% della capacità degli impianti, record da dieci anni. In alcune aree del Paese si è addirittura andati oltre: il 97,1% nella East Coast e il 100,3% nel Midwest (stabilimenti locati in prossimità degli stabilimenti di sale oil). 100,3% vuol dire che, dati i “fiumi di greggio” presenti sul mercato, sfruttando i margini di produzione grazie anche all’allungamento dei turni di lavoro, si è prodotto più di del “massimale” previsto da quella raffineria.

IN EUROPA E’ POCO

Appena un anno fa, quando l’ad di Eni, Claudio Descalzi nel corso di un’audizione alla Camera, ricordava che, quello delle raffinerie, “è un settore che ha perso 6 miliardi dal 2009 ad oggi” e quindi “la soluzione sta nella trasformazione, senza perdita di posti di lavoro”.  La recessione ha contribuito, la demografia europea anche (meno popolazione vuol dire meno consumatori) e infatti negli ultimi 10 anni la diminuzione di utilizzo dei prodotti petroliferi è scesa del 15%, e in Italia del 30%.

IL PROGETTO DEL CANE A SEI ZAMPE

Il progetto industriale è quello di ridurre la capacità di raffinazione in favore di prodotti bioraffinati, rientrando nei parametri imposti dall’Ue entro il 2020 e soddisfando un mercato sempre più “bio”. La strategia è la trasformazione: il vecchio non viene rottamato ma convertito. I lavoratori continuano a lavorare, gli stabilimenti non vengono destinati all’abbandono e l’indotto continua ad essere tale con qualche variazione. I costi di investimento, rispetto a strutture ex novo, sono così abbassati di circa il 75%.

ECCO COME 

L’impianto di Porto Marghera è la prima bioraffineria al mondo ottenuta dalla conversione di una raffineria tradizionale. La base della tecnologia utilizzata – Ecofining, sviluppata a partire dal 2005- sta negli oli vegetali (tra i quali olio di palma, soia, colza) che, attraverso un processo di idrogenazione (i legami chimici che determinano viscosità di prodotto, vengono ridotti grazie all’addizione di atomi di idrogeno) producono biocarburanti quali Green Diesel, Green nafta e Green gpl. Il progetto, naturalmente, si chiama Green Refinery e l’aspetto vincente, oltre che la presenza di un nuovo “ciclo verde” all’interno della vecchia raffineria, sta nella qualità. I motori che utilizzano i biocarburanti si rovinano meno e hanno un rendimento migliore.


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