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La tecnologia è più democratica della politica? Il saggio di Stefano Feltri

I sintomi dell’inutilità della politica sono così evidenti che non ci si può stupire se a ogni elezione il numero dei votanti scende. Perché scomodarsi? I partiti ormai si dividono in due categorie: quelli che vogliono governare e offrono tutti, con impercettibili variazioni, lo stesso programma; e quelli che sono ragionevolmente sicuri di rimanere all’opposizione e dunque possono permettersi di fare proposte seducenti, iperboliche e inattuabili. Talvolta, messi alla prova del governo, si convertono subito al primo modello.

I partiti non riescono più neppure a rappresentare le parti della società cui alludono i loro nomi. Le identità si sono confuse, chi ha invocato a lungo la redistribuzione ora la teme perché ci sono nuove categorie di bisognosi (i giovani e gli immigrati stanno peggio di operai e impiegati), chi predicava liberismo e globalizzazione si scopre protezionista, le imprese che rivendicavano una competizione su salari e diritti ora la stanno perdendo, perché altre imprese di altri Paesi offrono salari molto più bassi e diritti molto meno garantiti. I leader politici provano dunque a inseguire un elettorato dai gusti mutevoli, che evolvono nel tempo di un tweet, ribaltamenti di preferenze troppo rapide perfino per essere colte dai sondaggi.

I politici, per essere eletti o rieletti, continuano a promettere la stessa cosa: più crescita, più posti di lavoro, il ritorno della prosperità. Che magari arriverà, ma non grazie a loro. Gli economisti sono divisi. Forse, in Occidente, siamo ormai prigionieri di un «ristagno secolare», una palude da cui neppure le alchimie creative dei banchieri centrali possono smuoverci. I motori della crescita straordinaria del Novecento sono finiti, l’integrazione dei commerci c’è stata, il muro di Berlino è caduto, le classi medie si sono comprate la lavatrice e milioni di persone che aspirano a diventare a loro volta classe media – in Cina e India – stanno iniziando a mangiare carne. Come si può immaginare che questa crescita prosegua senza far collassare il pianeta e senza politiche pubbliche di sostegno all’economia che oggi non sembrano attuabili? Grazie alla tecnologia, rispondono altri economisti, perché siamo all’inizio di un mutamento epocale, che cambierà le nostre società quasi quanto la scoperta del fuoco, quella dell’elettricità o degli antibiotici.

In un caso come nell’altro, a prescindere da chi abbia ragione, il ruolo della politica sembra marginale. Certo, i partiti resteranno i protagonisti indiscussi dell’attività parlamentare, perché per essere eletti bisogna essere candidati da una qualche formazione che, in fin dei conti, è sempre un partito. Ma le decisioni dei parlamenti sono lente, poco efficaci, lontane e parallele rispetto alle forze che stanno definendo il mondo in cui viviamo.

Se ci attende il declino, la politica può soltanto cercare di distribuire nel modo più equo possibile il prezzo da pagare, evitando che finisca tutto sui più deboli e meno rappresentati. Ci sono però dei limiti, le nostre democrazie – e le nostre costituzioni – non sono pensate per i tempi di crisi. Quando diversi governi europei, incluso quello italiano, hanno provato ad applicare l’austerità contabile richiesta dalle regole comunitarie, hanno scoperto che molti provvedimenti di redistribuzione venivano bocciati dalle corti costituzionali che preferivano tutelare diritti acquisiti ormai privi di copertura finanziaria.

Speriamo allora che abbiano ragione i profeti di una nuova rivoluzione industriale che passa non dalle macchine ma dalle idee, non dall’hardware ma dal software, non dalle ferrovie ma dalla rete. Grazie alla tecnologia, il costo di molti beni e servizi che in passato assorbivano una parte rilevante dei nostri redditi è sceso vicino allo zero. Basta avere l’intuizione giusta per diventare miliardari con investimenti minimi. Non servono macchinari, dipendenti, infrastrutture, bastano un computer e un’idea.

Molti settori che la politica ha protetto dalla concorrenza – come favore clientelare – vengono scardinati dall’innovazione: Uber liberalizza il trasporto pubblico locale, Spotify supera il concetto di copyright nella musica, AirBnB asfalta i tentativi degli albergatori di fare cartello, TripAdvisor rende prive di senso le agenzie di viaggi e perfino le guide turistiche, Facebook e Google sfidano il modello di business dei giornali e dell’editoria, Amazon cambia il concetto stesso di consumo, portando il negozio dal cliente invece che il contrario (chi costruirà mai più una «cittadella dello shopping»come quelle nate negli ultimi trent’anni alla periferia delle nostre metropoli?). Tutto questo ha un prezzo: molti posti di lavoro spariranno, molte imprese – e i Paesi che le ospitano – si ridurranno a produrre beni e servizi mediocri, troppo costosi o troppo lenti per essere profittevoli. La ricchezza si concentrerà nelle mani di pochi individui e pochi Stati, ancora meno dei pochi che la controllano oggi. Non c’è alcuna garanzia che i posti di lavoro creati dalla rivoluzione tecnologica saranno più di quelli distrutti: negli ultimi duecento anni il progresso delle conoscenze ha portato anche un aumento del benessere. Questa volta le conoscenze necessarie ad appropriarsi del benessere aggiuntivo prodotto sembrano essere così sopra la media che, per definizione, molti saranno esclusi.

La politica può tentare di imbrigliare il cambiamento, mettere fuori legge le innovazioni come un tempo si bruciavano i libri (e i loro autori) che annunciavano scoperte sgradevoli. Ma non funzionerà, non ha mai funzionato. Può invece rendersi utile mettendo in condizione i cittadini di cui è responsabile di approfittare delle opportunità che si aprono, limitando il numero delle vittime. C’è un solo modo per farlo: garantendo l’istruzione adeguata, un investimento i cui rendimenti si vedono solo nel lungo periodo ma che al momento non ha alternative.

Purtroppo i governi hanno sempre meno risorse, durante la crisi hanno preferito tagliare sugli investimenti (penalizzando gli elettori di domani) per lasciare invariata la spesa corrente (tutelando gli elettori di oggi). E, anche se ci provassero, non è affatto detto che plotoni di burocrati ministeriali siano in grado di intuire le conoscenze e le abilità che saranno richieste da un mercato che cambia così in fretta. In Italia lo Stato spende ogni anno per l’università lo 0,8 per cento del Pil, meno di qualunque Paese industrializzato, inclusi quelli che hanno un sistema centrato sull’istruzione privata. La politica sembra quindi chiusa in un angolo di inutilità. E i politici peggiorano la situazione vincendo le elezioni con promesse via via più ambiziose che si rivelano sempre più inattuabili, aumentano le aspettative dei loro elettori solo per deluderle una volta conquistato il potere.

Nelle repubbliche virtuali di Facebook e Google, a differenza che nel Panopticon, i cittadini-carcerati sanno di essere osservati ma non se ne curano, anzi, ne sono quasi felici perché proprio l’onniscienza del sorvegliante garantisce servizi e piaceri sempre maggiori. Non è un futuro – e un presente – da incubo orwelliano, però, quello che stiamo conoscendo. Perché altre forze stanno salvando la politica dal suo annichilimento. Sempre per effetto della tecnologia, i costi marginali di molti beni e servizi sono arrivati quasi a zero. Questo rende conveniente per le imprese – di nuovo per la prima volta nella storia – rivolgersi anche ai più poveri dei consumatori, meglio guadagnare pochi centesimi da centinaia di milioni di clienti che affidare il proprio bilancio al consumo compulsivo di ristrette minoranze occidentali il cui limite di spesa per obiettivi diversi dalla sopravvivenza sembra raggiunto.

Se le imprese di telefonia non cercano più soltanto di vendere messaggini con l’oroscopo o i risultati delle partite di calcio agli stessi clienti occidentali, ma investono su servizi bancari via telefono o corsi di inglese pensati per i tanti africani che hanno poche infrastrutture ma si salvano dall’isolamento grazie a un cellulare, queste compagnie perseguono – insieme al proprio tornaconto – un interesse generale. Le imprese non sono diventate buone, non hanno eliminato la tentazione di scaricare le conseguenze sociali negative del proprio business (inquinamento, fallimenti pagati dallo Stato, sussidi) sulla collettività. Semplicemente la tecnologia ha creato nuovi modelli di business che possono rendere più conveniente risolvere alcuni dei grandi problemi del mondo invece che peggiorarli. L’effetto politico più rilevante di questi cambiamenti è di spostare su di noi, come individui, il peso del nostro destino.

Se le scelte collettive, quelle della politica, sono sempre meno rilevanti, cresce il peso di quelle individuali. Se i baby boomer potevano permettersi di lottare per avere il 18 politico all’università, di studiare pedagogia o filosofia e poi di andare a sperimentare nuove droghe in India certi che, alla fine, lo Stato, la famiglia, o una rete di conoscenze avrebbero comunque garantito loro un futuro di prosperità, queste opzioni sono precluse ai loro figli e nipoti. Che non possono più sbagliare una mossa, visto che sono privi di tutele e reti di sicurezza. La tecnologia sta creando mille opportunità di guadagno, ma ai margini del mercato del lavoro codificato.

Studenti cinesi e indiani possono seguire i corsi di computer science di Harvard e del Mit su Internet, gratis, e ottenere certificati con cui trovare un lavoro migliore. O magari ottenere una borsa di studio per andare davvero a Boston. Attivisti sconosciuti hanno la possibilità di mobilitare milioni di persone con i loro video su YouTube, mentre le piattaforme di crowdfunding possono sostituire il finanziamento bancario, aiutare le imprese innovative o perfino gli Stati senza soldi.


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