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Le bizzarre polemiche del Fatto su Mattarella e Napolitano

Solo in un Paese disturbato e in un dibattito politico insolente si può trasformare in un caso l’incontro svoltosi al rientro dalle vacanze fra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il predecessore Giorgio Napolitano. E disquisire sarcasticamente sulla qualifica di “presidente emerito” spettante agli ex capi dello Stato da quando così fu disposto dal governo di Massimo D’Alema su proposta di Francesco Cossiga.

Una furente Sandra Bonsanti, sul Fatto Quotidianosi è fatta prendere addirittura dalla voglia di contare i passi a Napolitano immaginandolo a piedi, e comprensibilmente affaticato con gli anni che ha, nella salita dalla sua abitazione romana di via dei Serpenti, alle spalle della Banca d’Italia, sino al vicino Quirinale. Affaticato e appesantito da una borsa da banale “lobbista”, zeppa di documenti utili a perorare con il capo dello Stato la riforma del Senato sostenuta dal governo, senza ulteriori modifiche e conseguenti ritardi. Se poi non fosse stato questo l’oggetto dell’ora e più di colloquio fra Mattarella e Napolitano, né l’uno né l’altro avrebbero il diritto di lamentarsi della fantasia urticante della giornalista, ed ex parlamentare dell’allora Pds-ex Pci, perché avrebbero ben potuto e dovuto indicare loro nel comunicato ufficiale dell’incontro gli argomenti trattati. Magari fornendo una registrazione audiotelevisiva della chiacchierata, in stile grillino.

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Negare a Napolitano, in quanto ex presidente della Repubblica, il diritto di avere le sue opinioni su una legge all’esame imminente dell’assemblea parlamentare della quale egli fa parte, ed anche di esporle al presidente della Repubblica, peraltro dopo averne parlato nella competente commissione del Senato e scritto in una lunga e ragionata lettera al più diffuso giornale italiano, mi sembra francamente bizzarro. Come bizzarro è accusarlo di volere sovrapporsi al successore e condizionarne l’orientamento per eventuali interventi di cosiddetta persuasione  morale su partiti, gruppi e presidenti di commissioni e assemblee parlamentari, uscendo dai pur “eloquenti silenzi” appena decantati da Marzio Breda sul Corriere della Sera.
La bizzarria è particolarmente evidente dopo che si è accettato e condiviso che altri ex presidenti della Repubblica facessero nascere governi, come nel caso di Cossiga, che procurò a D’Alema nel 1998 i voti parlamentari per la fiducia improvvisando un partitino di fuoriusciti dal centrodestra berlusconiano, o guidassero sulle piazze campagne referendarie contro una riforma costituzionale sgradita, come accadde con Oscar Luigi Scalfaro nel 2006.

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Nel trigesimo della morte di Giovanni Conso sono andato a rivedermi le fotografie scattate al suo funerale (qui la gallery). Mi hanno purtroppo colpito non tanto i pur numerosi presenti, quanto gli ancor più numerosi assenti, dei piani alti e bassi della politica, dove si è avuta evidentemente paura di compromettersi nell’onorare un insigne giurista, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia perché coinvolto nelle indagini e nel processo di Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia di più di vent’anni fa.
Sospettato di non avere rinnovato il regime del carcere duro a qualche centinaio di mafiosi nell’ambito proprio di quella presunta trattativa per far cessare la stagione delle stragi, Conso si assunse onestamente tutte le responsabilità di quella decisione, precisando di averla assunta in piena autonomia, con la discrezionalità spettante al Guardasigilli, in considerazione della situazione critica esistente allora nei penitenziari, senza volere fare da sponda a negoziati di sorta.
Egli avrebbe meritato, a quel punto, o di essere creduto e scagionato, per il rispetto che meritava la sua storia personale, o di essere affidato alla giurisdizione e alle procedure di garanzia del tribunale dei ministri, con il necessario assenso del Parlamento. Ma non gli fu concessa né l’una né l’altra cosa. E la sua figura rimase appesa alla solita gogna mediatica che accompagna e sovrasta i processi.

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Un insolito Massimo D’Alema, intervistato da Aldo Cazzullo, ha riconosciuto la brutta e costosa abitudine di essere “sprezzante”, come però, secondo lui. è anche Matteo Renzi. Al quale ha attribuito, in più, la colpa di usare metodi “staliniani” di lotta politica nel partito. Staliniani, non stalinisti, perché in fondo tra i baffoni di Stalin e baffini di D’Alema c’è sempre un certo rispetto.


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