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Pietro Grasso torna inquirente

Il presidente del Senato Pietro Grasso, Piero per gli amici, è tornato a fare l’inquirente. Egli indaga non sulla mafia, come ha fatto nella lunghissima carriera di magistrato, ma sui fatti a dir poco inquietanti accaduti di recente nella giunta delle immunità. Che è presieduta da Dario Stefàno, vendoliano da qualche tempo in sofferenza all’opposizione, assurto alla notorietà nazionale nel 2013 per la gestione del procedimento di decadenza di Silvio Berlusconi da parlamentare.

Grasso vuol sapere se è vero ciò che il senatore socialista Enrico Buemi ha gridato ai quattro venti accusando il grillino Michele Giarrusso di avere praticamente impedito alla collega di gruppo Serenella Fucksia di votare in giunta contro l’arresto del centrista Giovanni Belardi.  Che è coinvolto nello scandalo dei rimborsi spese alla regione Calabria.

Redarguita da Giarrusso per i cenni di dissenso dalla relazione a favore dell’arresto e i cenni di assenso alla relazione contraria, la Fucksia sarebbe stata costretta, secondo il racconto di Buemi, ad uscire dall’aula della giunta per chiarire i suoi orientamenti. E sarebbe stata convinta a rientrare per fare prevalere con il suo voto il fronte favorevole all’arresto di Belardi: 9 contro 7.

La Fucksia, in verità, ha negato di essere stata costretta a quel voto, ma ha ammesso di essere stata tentata dall’astensione perché per niente convinta che, peraltro a due anni di distanza dai fatti contestatigli, Belardi potesse occultare o alterare prove a suo carico, come sostenuto dall’accusa. Ed ha confermato di diffidare talmente della gestione parlamentare delle richieste d’arresto di senatori e deputati da essere favorevole a una riforma per trasferirne la competenza alla Corte Costituzionale, come proposto di recente dal ministro della Giustizia.

La prova delle pressioni improprie esercitate sulla Fucksia è stata data involontariamente dal collega di gruppo Vito Petrocelli, che ha annunciato la rinuncia a occupare nell’aula del Senato l’abituale posto accanto a lei. Che si potrà ora consolare dicendo che certi vicini è meglio perderli che trovarli.

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Brutte notizie a Palazzo Madama anche sul versante della riforma del Senato, e della presunta immodificabilità del vitale articolo 2, sostenuta anche dalla presidente della competente Commissione, Anna Finocchiaro, per il rischio di compromettere l’elezione indiretta dei nuovi senatori e di ricominciare tutto daccapo.

A smentire la tesi della irrilevanza della modifica apportata a quell’articolo dalla Camera, passando dai senatori eletti nei Consigli regionali ai senatori eletti dai Consigli regionali, è intervenuto il giurista Gianluigi Pellegrino spiegando finalmente l’arcano. Se eletti nei Consigli regionali, i sindaci potrebbero rimanere in carica come senatori sino alla fine del loro mandato amministrativo, indipendentemente dalla durata dei Consigli regionali da cui sono stati scelti. Se eletti invece dai Consigli regionali, i sindaci potrebbero essere sostituiti ad ogni cambiamento di Consiglio regionale, anche se nel frattempo non fossero cessati dal loro mandato amministrativo.

E’ in gioco quindi la rappresentatività più o meno marcata della quota del nuovo Senato destinata ai sindaci, per cui l’articolo 2 appare, nel testo modificato dalla Camera, molto meno immodificabile, nel nuovo passaggio a Palazzo Madama, di quanto non vogliano far credere quanti intendono blindarlo.

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La decisione di Anna Finocchiaro di schierarsi con il presidente del Consiglio sulla blindatura dell’articolo 2 della riforma del Senato ha un significato politico ben superiore a quello tecnico-giuridico.

Voluta alla presidenza di una delle più importanti Commissioni del Senato, quella per gli affari costituzionali, dall’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani in quota alla componente dalemiana, la Finocchiaro ha finito, volente o nolente, per riposizionarsi nella toponomastica del partito.

Il modo in cui si è esposta in un editoriale della rinata Unità, definendo “inconcepibile” e “inaccettabile” l’atteggiamento dei dissidenti del Pd, ha fatto dimenticare al rottamatore Renzi l’assalto mediatico dei suoi amici a quel carrello che un autista attribuito alla scorta dell’allora capogruppo del Pd al Senato si era gentilmente prestato tre anni fa a spingere al posto suo in un grande emporio romano.  Un carrello che in qualche modo compromise le aspirazioni della Finocchiaro al Quirinale con polemiche che l’interessata liquidò come miserabbili: con la doppia b cui ricorreva nei momenti d’ira Ugo La Malfa, siciliano come lei.

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