Dalla storica formula di “un uomo un voto” si è passati in Italia alla meno storica ma ugualmente efficace formula di “due voti due schede”, declamata a Palazzo Madama dall’ex vice presidente dell’assemblea Vannino Chiti per tradurre in soldoni la posizione della minoranza del Partito Democratico sulla riforma del Senato. Che andrebbe eletto né dentro né dai Consigli regionali, come previsto nei testi sinora approvati in Parlamento, ma dagli elettori dei Consigli regionali con due schede, appunto: una per votare solo i consiglieri regionali e un’altra per scegliere i consiglieri regionali destinati a fare anche i senatori.
La guida della minoranza del Pd impegnata al Senato per modificare la riforma proposta dal governo è stata ed è tuttora attribuita dai giornali all’ex segretario del partito Pier Luigi Bersani, che peraltro non è neppure senatore.
Anche Matteo Renzi preferisce Bersani come interlocutore, sia pure a distanza, rimproverandogli comunque la pretesa, con i suoi alti e bassi sulla prospettiva di un’intesa, di tornare alla pratica dei “vecchi caminetti”. Attorno ai quali, accesi o spenti, secondo le stagioni, anche nel partito comunista, come nella Dc, in quattro o cinque solevano concordare le decisioni più importanti. Una pratica cui Renzi non intende piegarsi, almeno fino a quando conserverà i numeri abbondanti di cui dispone nella direzione e nell’assemblea nazionale del partito. E pazienza se questi numeri non sono gli stessi dei gruppi parlamentari eletti nel 2013, e selezionati con il sistema delle liste bloccate da Bersani.
Ma in realtà a dirigere la musica della minoranza del Pd è al Senato Chiti, toscano come Renzi, ma di Pistoia, anziché di Firenze e dintorni. Un toscano tenace, provvisto di larga esperienza di amministratore locale, avendo fatto il sindaco della sua città e il presidente della sua regione, e di altrettanto larga esperienza politica proprio in materia di riforme istituzionali, come sottosegretario con Giuliano Amato e ministro con Romano Prodi.
E’ da Chiti che alla rappresentazione di ogni via di uscita proposta dal governo o dai suoi compagni di partito per chiudere la vertenza apertasi al Senato gli interlocutori si sentono chiedere, con inflessibile monotonia: sono assicurate le due schede per i due voti?
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Al Colosseo si è tornati ad entrare, ma in attesa della prossima assemblea dei custodi, cioè della prossima “apertura ritardata”, o del prossimo sciopero, già preannunciato per il mese prossimo dai sindacati.
L’applicazione del decreto legge immediatamente e lodevolmente adottato dal governo per equiparare quelli dei e nei musei ai servizi pubblici essenziali, come trasporti e ospedali, sarà messa a dura prova a livello burocratico, prima ancora che parlamentare e politico, essendosi già levate in quella sede proteste, riserve e proposte a dir poco bizzarre. Come quella di pagare con gli straordinari le partecipazione alle assemblee sindacali fuori dagli orari di lavoro, in modo che non si traducano nella chiusura, o nelle “aperture ritardate”, dei musei. Così le assemblee, diventando un modo di guadagnare di più, si moltiplicherebbero. E a pagarne le spese sarebbe il solito Pantalone.
Di assemblee fuori dagli orari di lavoro e senza oneri, al posto ogni tanto di una pizza o di un film, come si fa nei condomini, non si può evidentemente parlare senza procurarsi le solite accuse di attentato ai diritti sindacali in questo Paese ridotto alla “normalità” reclamata dalla Cgil di Susanna Camusso, ma anche dagli altri sindacati.
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Il senatore Paolo Naccarato, con pervicacia e sarcasmo imparati dal compianto Francesco Cossiga in lunghi anni di frequentazione e collaborazione, si è guadagnata l’attenzione di cronisti e retroscenisti traducendo così le transumanze parlamentari in corso, palesi e occulte, dalle opposizioni alle file renziane: “Per entrare nella maggioranza presto ci saranno solo posti in piedi”. Naccarato non ha forse imparato da Cossiga il pessimismo della ragione, opposto all’ottimismo gramsciano della volontà. Il mio amico Francesco avrebbe annunciato che sono già finiti anche i posti in piedi.
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Eugenio Scalfari è rimasto insensibile alle aperture del suo editore Carlo De Benedetti, che ha definito “figlio della modernità” Matteo Renzi. Il fondatore della Repubblica, di carta, continua nelle sue riflessioni domenicali a considerare il presidente del Consiglio prigioniero di una concezione riduttiva e per niente moderna dell’Europa, come una somma inconcludente e rovinosa di nazionalismi. E continua a contestargli una riforma troppo pasticciata del Senato.