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Un Senato di scatole cinesi

Fermo restando, al netto di strappi e invasioni di campo istituzionale, il merito di Matteo Renzi di tentare davvero, e finalmente, la riforma dell’ormai paralizzante bicameralismo “paritario” in vigore dal 1948, sorprende il prezzo che sta pagando pure lui, così giovane e deciso a cambiare anche il ritmo e lo stile dell’azione pubblica, al professionismo politico. Che indulge più al compromesso, e persino al pasticcio, che alla chiarezza quando i nodi si aggrovigliano.

Ha l’aria dell’ennesima scatola cinese dei pasticci, appunto, la soluzione concordata nel Partito Democratico sul problema dell’elezione indiretta o diretta del nuovo e più smilzo Senato. Un compromesso “bizantino”, secondo la definizione di Pier Luigi Bersani, accettato dalla minoranza del Pd con il proposito dichiarato dallo stesso Bersani di ripetere “il metodo” dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale.

Allora si trattò di rendere ininfluente un qualsiasi ruolo di Silvio Berlusconi ai fini del risultato della votazione decisiva per la successione a Giorgio Napolitano. Adesso si è trattato, e si tratta, di rendere ininfluenti ruolo e numeri di Denis Verdini e degli ultimi fuoriusciti, in aumento, da Forza Italia. Fuoriusciti che evidentemente si considerano dalle parti di Bersani politicamente più inquinanti e inaccettabili di Berlusconi, tornato nel frattempo all’opposizione sul fronte delle riforme a causa del metodo scelto per portare Mattarella alla Presidenza della Repubblica.

Già messe così, fermandosi cioè al metodo, o al preambolo, le cose appaiono obiettivamente bizzarre. Esse peraltro hanno sul piano tattico solo l’effetto di un vantaggio per Berlusconi, che può gridare ai fuoriusciti, proprio mentre ne aumenta il numero fra Camera e Senato, di essere condannati alla irrilevanza.

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Nel merito, il compromesso per l’elezione del nuovo Senato consiste nel renderla diretta ma nel chiamarla indiretta. Nel senso che i senatori continueranno ad essere formalmente eletti dai Consigli regionali, ma “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”, come dice il testo predisposto, lontano dai carrelli Ikea che non piacciano a Renzi, dalla senatrice Anna Finocchiaro, presidente ex dalemiana della competente commissione di Palazzo Madama.

Come si concilieranno i voti dei consiglieri regionali e quelli dei cittadini votanti, chiamati insieme a concorrere all’elezione del nuovo Senato, lo stabilirà un’apposita legge ordinaria, o più leggi, visto che ogni regione ha il diritto di farsene una in materia appunto elettorale.

A simile o simili leggi Parlamento e/o Consigli regionali potranno ovviamente provvedere solo dopo che la riforma del Senato sarà stata approvata e promulgata, cioè dopo il referendum confermativo previsto da Renzi nell’autunno del 2016, quando mancherà un anno e mezzo circa alla scadenza della legislatura, salvo complicazioni ed elezioni anticipate. Ma è possibile chiedersi che cosa accadrebbe se il Parlamento, da solo, o i Consigli regionali non dovessero, o non volessero, farcela prima del 2018 a fare la o le leggi elettorali di attuazione della riforma del Senato? Si sentirebbe legittimato a intervenire il governo per un problema di urgenza, cioè ricorrendo a un decreto legge? Data una materia delicatissima come quella elettorale, la firma del Capo dello Stato sarebbe scontata? Sono domande volatili come gli uccelli, non necessariamente gufi.

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In ogni caso, la pasticciata vicenda della riforma del Senato ha già prodotto un primatista. E’ il vice presidente leghista dello stesso Senato, Roberto Calderoli, con i suoi annunciati 85 milioni – ripeto, ottantacinque milioni – di emendamenti, prodotti con un algoritmo inventato da un collaboratore che si chiama Penna, pur non avendo bisogno neppure di una matita per sommergere di carta e mettere in pericolo la stessa stabilità dell’edificio del Senato.

Sua Eccellenza Benito Mussolini s’inventò in un celebre discorso del 24 ottobre 1936 a Bologna una “foresta di 8 milioni di baionette”, destinate a essere impiegate nel peggior modo possibile, per sé e per gli altri. Calderoli, già ministro addirittura della semplificazione con Berlusconi, ha superato il duce alla grande sfoderando come baionette ostruzionistiche i suoi 85 milioni di emendamenti.


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