La sentenza del Tar del Lazio, che ha respinto il ricorso di alcune ditte che si erano viste annullare la delibera del comune di Borgorose per la realizzazione di un impianto per la cremazione delle salme, apre scenari ancora difficilmente prevedibili e cambia di botto le regole del gioco degli equilibri di potere dell’opinione pubblica. Certo la decisione non viene su una infrastruttura come una centrale elettrica, una autostrada o un termovalorizzatore.
Tuttavia, è chiaro che il riconoscere che è sufficiente la “manifestazione da parte della popolazione del Comune della contrarietà alla realizzazione dell’opera” per rendere fondata la decisione dell’Amministrazione di ritirare la sua precedente autorizzazione rischia di inaugurare una nuova, più radicale, stagione di conflitti tra la logica del “fare” e quella del “no”. E rende certamente ancora più evidente agli investitori l’incertezza del diritto e la volatilità delle decisioni pubbliche proprio in un momento in cui con grande forza il governo Renzi sta tentando di offrire a chi intende investire in Italia un quadro di certezze nei tempi, nelle regole e nei soggetti chiamati a decidere.
È noto a chiunque si occupi di infrastrutture che i tempi medi, in Italia, per ottenere una autorizzazione siano tra i più lunghi al mondo, oltre 11 anni. È noto anche che la realizzazione delle opere, quando avviene, è frutto di un percorso tortuoso in un labirinto di competenze centrali, regionali e locali che rappresenta più poteri di veto che di proposta. È noto anche che avventurarsi nella costruzione di una infrastruttura assomiglia più a un gioco dell’oca che ad una seria governance del processo decisionale. Ed è ancora stranoto che non c’è mai una autorizzazione che non debba passare poi al vaglio di Tar e Consiglio di Stato e spesso più volte.
Il caso di Borgorose, Comune di 4.500 abitanti al confine tra Lazio e Abruzzo, però, apre anche un diverso scenario. È forse sufficiente l’espressione di una protesta più o meno organizzata per far recedere l’amministrazione da una decisione già presa e validata da atti amministrativi solo pochi mesi prima? È corretto considerare legittimo, come fa il Tar, affermare che “l’interesse primario” deriva dalla risposta “ai bisogni manifestata dalla stessa popolazione”?
Una giunta comunale può cambiare così repentinamente la sua “valutazione sull’interesse pubblico” di una infrastruttura che ha già compiuto tutti i passaggi amministrativi previsti? Se fosse così potremmo dire addio a qualsiasi opera in Italia. Non c’è infatti progetto che non abbia attivato comitati e proteste e si calcola che siano circa 350 le opere bloccate dalla cosiddetta sindrome Nimby (not in my backyard, non nel mio giardino), mentre il costo per la collettività delle infrastrutture non realizzate si aggira in oltre 400 miliardi di euro, tra investimenti bloccati, costi di inefficienza di sistema e valore aggiunto non prodotto.
Ma tornando alla sentenza è chiara la portata che potrà avere nel consentire anche a un manipolo di cittadini che manifestano di bloccare qualsiasi intervento infrastrutturale. Una protesta peraltro che non è necessario che sia formalizzata da un referendum. Basta che sia interpretata dalle forze politiche come “espressione della volontà della maggioranza”. E qui viene il tema del consenso. Certo la sentenza del Tar rappresenta esclusivamente una valutazione giuridica, ma non si può negare che la decisione sia “una novità che riapre il tema della necessità di ricostruire il rapporto, entrato in crisi, tra certezza del diritto e dinamiche economiche” come ha prontamente commentato un magistrato della Corte dei Conti di grande esperienza, anche istituzionale, come Massimiliano Atelli.
E non si può negare il rischio di un effetto contagio di questa interpretazione tra i centinaia di Comuni, ma anche amministrazioni centrali, che sono alle prese con lenti e faticosi processi autorizzativi.
Che ne sarà del Piano Rifiuti annunciato dal governo e condizionato dagli obblighi europei che chiedono la chiusura delle discariche e la realizzazione di termovalorizzatori? Che ne sarà del Piano infrastrutture che il ministro Graziano Delrio porterà nella legge di stabilità? Che ne sarà del progetto di esplorazione della ricchezza di gas nel nostro sottosuolo che il governo ha avviato?
Che interpretazione si potrà dare alla protesta dei NoTav, NoNavi, NoTrivelle? Se la certezza del diritto ha le armi spuntate dovremo necessariamente cercare la soluzione nella capacità delle aziende e delle amministrazioni di costruire consenso preventivo, di condividere la progettazione ai suoi primi passi, nell’usare la comunicazione con le stesse tecniche utilizzate dagli antagonisti. Il confronto sarà sempre più tra i Comitati del No e quelli del Sì. Una battaglia dura, a colpi di messaggi e capacità di aggregazione. I mezzi ordinari, infatti, non bastano più e gli ingegneri dovranno rassegnarsi ad essere affiancati da comunicatori, esperti di grassroot e di social network, registi della gestione del consenso e dello stakeholder engagement. Una sfida che richiederà sempre più professionisti di esperienza.