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Tsipras, Corbyn e Sanders. Perché la sinistra radicale attecchisce

Dopo la vittoria particolarmente ampia di Jeremy Corbyn tra i laburisti inglesi, il voto greco per Alexis Tsipras in Grecia conferma una tendenza evidente nelle democrazie occidentali alla crescita di una sinistra più radicale rispetto a quella degli ultimi decenni. D’altra parte basta considerare in questo senso  gli ottimi risultati che sta ottenendo Bernie Sanders, un candidato che si autodefinisce socialista democratico, nelle primarie del partito democratico per le presidenziali americane, per capire come si tratti di un fenomeno generale.

Al fondo di questa “novità” stanno tre elementi centrali: un istinto difensivo dei ceti popolari rispetto alla ristrutturazione del welfare, istinto che si potrà considerare conservatore e nel medio termine nocivo ma non per questo meno significativo (in Gran Bretagna proprio questo “istinto” ha portato tanti voti ex laburisti all’Ukip e al partito nazionalista scozzese); c’è poi una preoccupazione diffusa per una democrazia sempre più ostile ai diritti sindacali e inoltre svuotata da autorità “neutre” incontrollabili, preoccupazione in parte “reazionaria” che disconosce cioè alcuni livelli di nuova civiltà conquistata, in parte ben fondata anche a causa dell’ultimo fattore di rinascita della sinistra radicale, quello dello strapotere della finanza globale. Anche in quest’ultimo caso si intrecciano tendenze positive (l’apertura dei mercati, gli incrementi degli investimenti) a degenerazioni ugualmente rilevanti che alimentano poteri sregolati e pericolosi per gli equilibri economici universali.

Di fronte a una tendenza profonda e ben motivata la cosa più penosa è mettersi a fare i pierini con il dito alzato: ben altri sono i modi di quelli della sinistra radicale per difendere i ceti popolari, ben altri sono i problemi di quello dello svuotamento della democrazia, ben trascurabili sono gli aspetti nocivi della finanziarizzazione globale rispetto ai benefici che questa ci ha regalato.

Se si ragiona da un punto di vista sistemico, una parte delle obiezioni della sinistra che si sta radicalizzando possono (e dal mio punto di vista devono) essere respinte dalla forze liberalconservatrici che appunto cercano soddisfazione ai bisogni sociali in un’espansione della ricchezza e non solo in una sua redistribuzione, che difendono la democrazia partendo dalle libertà degli individui e non solo dai meccanismi statuali e che vogliono regolare la finanza globale tenendo ben aperti i mercati internazionali e sostenendo le ragioni dell’impresa.

Se si ragiona dal punto di vista di chi vuol rappresentare le centrali istanze dei ceti popolari la risposta non può essere che ben più articolata di quella liberal-conservatrice: andatevi a rileggere gli scritti keyenesiani sugli effetti della Prima guerra mondiale, le riflessioni sulle conseguenze di una disoccupazione di massa con annessa miseria e imparate da un pensatore pur liberale quel che sono i doveri di una sinistra che non pensa solo al lungo periodo ma che deve rispondere subito ai bisogni di persone in carne e ossa. Se volete capire che cosa sia per la sinistra la questione democratica studiatevi i poteri del sindacato a Detroit e quelli che sono diventati quelli dei lavoratori organizzati a Torino.

Si dirà che la caduta torinese è conseguenza di un sindacato uscito di testa come la Cgil delle Camusso e dei Landini. Certamente, ma è anche frutto di una sinistra che quando prepara una buona riforma come il Jobs act o dice cose sensate sulle assemblee dei lavoratori al Colosseo, non si pone più il problema dei diritti democratici dei lavoratori, tutta incentrata sui sondaggi di opinione che prescindono dalle funzioni di rappresentanza.

Infine sulla finanziarizzazione globale è difficile che si facciano veri passi in avanti senza una riflessione autocritica su quella che è stata la sinistra bancaria dei Clinton, dei Blair e dei D’Alema alla fine degli anni ’90, su una scommessa sbagliata intorno alle capacità di autoregolamentazione e addirittura di programmazione dello sviluppo di grandi gruppi che lasciati padroni dei destini di tutti, non possono non creare guai.

Insomma con tutto il male che si può dire delle sue viscidità di fondo, mi pare assai più ragionevole a sinistra un atteggiamento come quella di Hillary Clinton che prende sul serio le istanze sociali di Sanders di quelle di tutti i nostri pierini che non capiscono che cosa le basi sociali chiedono alla loro sinistra.

Dovrebbero imparare da uno dei miei eroi preferiti un ultra conservatore churchilliano come il sindaco di Londra Boris Johnson che del nuovo leader laburista ha detto: è un uomo ricco di passione e di principi.

In realtà a una parte di élite l’ideale appare un mondo dominato dalle Merkel e dai Renzi senza più destra e sinistra, dove la Germania possa così guidare il Vecchio continente pur non avendo una leadership, e dove l’Italia possa vivacchiare mettendo in soffitta qualsiasi ricordo di sovranità nazionale (e in prospettiva di sovranità “democratica” sperando di bloccare il sistema politico lasciando come unica alternativa il grillismo).

L’egemonismo tedesco e l’eccezionalità italiana hanno sempre portato disastri all’Europa. Tranne che durante il Secondo dopoguerra quando la minaccia sovietica dava un potere straordinario d’influenza a Washington e disciplinava il Vecchio Continente. Ma l’ordine del passato non può tornare e si tratta di trovarne uno nuovo che può nascere bene solo da una vera dialettica popolo-istituzioni e tra posizioni alternative. E certamente non cambiando le costituzioni con i transfughi.


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