Adesso si può considerare davvero completato il percorso di evoluzione, e di autocritica, volente o nolente, dell’ex magistrato Luciano Violante. Che da punto di riferimento del cosiddetto “partito dei giudici”, più in particolare dei pubblici ministeri, come era considerato e si lasciò considerare a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, è approdato al ruolo di severo e competente censore delle ormai incontenibili esondazioni politiche delle toghe. Ma severo anche con i politici troppo arrendevoli, che cedono terreno ai magistrati ricorrendo a loro per coprire posti delicati di responsabilità amministrativa, come è già accaduto e forse accadrà ancora di più in Campidoglio. Dove al sindaco finalmente dimissionario Ignazio Marino e alla sua giunta potrebbero subentrare commissari anche togati.
Insorto da solo contro l’ennesimo ritardo del Consiglio Superiore della Magistratura sulla strada di una nuova e più stringente disciplina della porta ora troppo girevole di andata e ritorno dei magistrati dai tribunali alla politica, Violante è letteralmente sbottato in una intervista al Quotidiano Nazionale.
“Prima o poi – ha ammonito l’ex presidente della Camera – emergerà un duro regolatore e saranno guai per la magistratura, che scambia l’indipendenza con una pervasività insistita nei confronti della politica ed è ancora incapace di autoriformarsi”.
Di quel “duro regolatore”, Violante ha già avvertito probabilmente la fisionomia. E’ un toscano? E già stato sindaco di Firenze? Si è già proposto di rimanere a Palazzo Chigi almeno fino al 2023? Ne avrà di tempo, in questo caso, per regolare “duramente” i conti con una magistratura troppo ingombrante.
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Se Luciano Violante ha completato il percorso da punto di riferimento a punto di contestazione dei magistrati invasivi, che nei loro atti, per esempio, “citano sempre più spesso personaggi politici che nulla hanno a che fare col processo”, perché “anche nella giustizia a volte lo spettacolo prevale sulla verità”, il suo compagno di partito Walter Veltroni ha completato il percorso da politico a romanziere.
Lo ha completato con un romanzo – Ciao, edito da Rizzoli – le cui recensioni procurano forti emozioni e stimolano ad una lettura che sicuramente non deluderà. Come non hanno deluso i libri precedenti di Veltroni, a cominciare da quella mirabile ricostruzione – con L’inizio del buio, edito anch’esso da Rizzoli nel 2011 – di due tragedie parallele del 1981. Quando il piccolo Alfredino Rampi fu inghiottito da un pozzo e Roberto Peci dall’odio feroce delle Brigate rosse per il fratello Patrizio, che le aveva tradite.
Questa volta Veltroni ha ritrovato nel suo romanzo papà Vittorio, che morì a soli 37 anni, quando lui ne aveva appena uno. Un papà bravissimo e tanto piacione da meritarsi alla Rai il soprannome di Volemose bene, come ha testimoniato Ettore Scola. Un papà che Walter ha sempre inseguito nei sogni, avendone potuto toccare e accarezzare da bambino solo i vestiti, gli oggetti, le foto. Un papà che egli ritrova nella fantasia sul pianerottolo di casa, tornato perché consapevole di essergli necessario in un momento che Walter, per quanto solo sessantenne, avverte più vicino all’arrivo che alla partenza. Un papà dal quale il figlio avrebbe voluto che gli “chiedesse, in vita, se ho la febbre, che mi guardasse la pagella, che mi rimproverasse”.
Un papà, quello di Veltroni, che non fece in tempo a consigliargli di non fidarsi di nessuno da grande, per cui il povero figliolo – parole sue – ha cercato “per tutta la vita di piacere agli altri”, come era riuscito proprio a Vittorio, “di farmi voler bene anche da chi mi era contro”. “Era un limite, per il lavoro che facevo”, scrive giustamente il primo ed ex segretario del Pd riferendosi al passato, ormai, della sua intensa attività politica. Dalla quale avrebbe meritato – lo dico sinceramente – più del molto che sicuramente ha avuto. Ciao, Walter, amico mio.
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Diversamente da Violante e Veltroni, il nuovo percorso di Gaetano Quagliariello, tutto interno alla politica, è solo all’inizio. E non si presenta per niente facile, essendosi l’ex coordinatore del Nuovo Centro Destra, tutto rigorosamente maiuscolo per rispettare l’acronimo NCD, di portare fuori dal governo il partito dei ministri dell’Interno, Angelino Alfano, e della Salute, Beatrice Lorenzin. Un partito che ha già perso dolorosamente per strada tre ministri: prima Nunzia De Girolamo, ora rientrata in Forza Italia, poi lo stesso Quagliariello e infine Maurizio Lupi, ora capogruppo sofferente alla Camera.
Sarebbe curioso, almeno per Alfano, lasciare il governo e gli smartphone ministeriali, rimanendo con la Lorenzin “insieme soli”, come la coppia dell’attualissimo libro di Sherry Turkle, proprio ora che può vantarsi della Legge di stabilità appena varata da Matteo Renzi con un contenuto e uno stile che più di centrodestra non si potrebbe: via le imposte sulla prima casa, per tutti e per sempre, più contante a disposizione per le spese, più sfida al rigore unilaterale preteso a Bruxelles, e a Berlino. Il primo abbassamento di tasse “senza fregature”, assicura il presidente del Consiglio nella speranza di non essere miseramente smentito già prima delle elezioni amministrative della primavera prossima.
Ma Quagliariello non ci sta. Anche se, francamente, non si capisce ancora bene se diffidi più di Alfano che di Renzi, se abbia più rimpianto di Silvio Berlusconi che dei tempi in cui, rimasto ministro delle Riforme con Enrico Letta nonostante la rottura con l’allora Cavaliere, era fra i “saggi” di casa al Quirinale.