Quanto era bella l’Italia di una volta, quando c’era il Senato. Un’economia solida, una magistratura indipendente, sindacati ragionevoli, industriali innovativi, burocrazia al servizio dei cittadini, politica trasparente, regionalfederalismo efficiente, piedi puliti – Totti e Del Piero a portare gli azzurri in goal.
Già oggi, che neppure c’è stato il voto conclusivo della Camera, si respira un’aria diversa, soffocante, di dittatura mascherata, alla Gelli, di finanza inquinata, alla Morgan Stanley. C’è da piangere. E infatti sale il pianto dal ventre della Società Civile fin su su, fino all’orango Calderoli e al coccodrillo Bersani, e la cara salma è compianta da Berlusconi e Zagrebelsky, dal Giornale e dal Fatto, dai fasci e dai tirabulloni.
C’è solo un partito del nuovo arco costituzionale che non piange. Grida, strepita, ma vedeste come se la ride sotto la criniera del leader e il cappello pensatore del capo.
Essì, perché il vero rischio che l’Italia ha davanti non nasce da questa riforma costituzionale. Vero, è un po’ abborracciata, piena di falle. Ne ha descritte alcune Gaetano Quagliariello nel suo intervento a favore ieri al Senato (e per qualche raro minuto si è sentita risuonare l’analisi politica in un’aula devastata da avanguardisti e aventiniani), ad esempio l’assenza di un bilanciamento dei poteri attraverso il rafforzamento dell’autonomia delle autorità di garanzia; ne ha indicate con precisione altre Ugo De Siervo oggi sulla Stampa: un meccanismo di elezione del presidente della Repubblica che rischia di portarci ogni volta ad elezioni anticipate (come accade in Grecia, ma almeno lì il tragitto verso il baratro elettorale è breve e costituzionalizzato), funzioni delle Regioni e del Senato regionale ancora confuse (ma sempre molto meno di oggi).
C’è pure, nella riforma epocale, la strizzata d’occhio populista-pauperista: senatori a gratis e azzeramento dei rimborsi ai gruppi regionali (che sennò le signore si comprano i profumi e i signori vanno al casino). Essendo l’Italia l’unico paese in cui il lavoro remunerato è indizio di corruzione, e quello gratuito esempio di ascetismo, a destra, e di schienadrittismo a sinistra.
Vabbe’, si potrà migliorare, dicono, e comunque è un passo avanti. Il che è vero, perché il Senato non è, per Costituzione, né è mai stato un contrappeso politico, ma una seconda, ulteriore espressione della volontà politica della maggioranza. E se qualche volta la seconda lettura ha impedito errori legislativi da penna blu, altre volte li ha inseriti. E se è vero che in una democrazia la velocità decisionale non è di per sé una virtù, è più vero ancora che l’incapacità decisionale o la lunghezza epocale (quella sì) sono sempre un vizio. Specie in un paese che mastica le riforme strutturali, indispensabili, urgenti urgentissime come un chewingum, sputandole (o spuntandole) dopo un interminabile viavai fra Montecitorio e Palazzo Madama.
La pecca più grave è però, sul lato della governabilità, il mancato rafforzamento dell’esecutivo. Vale a dire la riappropriazione da parte del presidente del consiglio delle funzioni che le costituzioni degli altri paesi affidano a premier, cancelliere o presidente. Fra questi la nomina e la revoca dei ministri, per fare l’esempio più spettacolare.
Si è cercato di ovviare a questa mancanza di chiarezza con la legge elettorale. È per questo che l’occhio dei guardiani della Costituzione o più semplicemente dei fautori della democrazia liberale avrebbe dovuto essere meno miope.
Se si rafforza -per via di legge ordinaria- l’esecutivo, non si deve indebolire il Parlamento. È l’abc della buona politica. Ci sono due modi storicamente sperimentati per ottenere questo risultato: il presidenzialismo e il collegio uninominale. Da noi si è scelta una ennesima terza via: un sistema di facciata parlamentarista che dovrebbe assicurare al presidente del consiglio poteri presidenzialisti. Non avremo né l’una cosa né l’altra, probabilmente, ma un ennesimo capitolo del trasformismo parlamentare. Se va bene. Sì, perché potrebbe andare molto ma molto male. Alla obiezione principale della Corte sul porcellum (il premio di maggioranza eccessivo) si è risposto col ballottaggio nel caso in cui al primo turno una lista non superi il 40 per cento dei voti. Non una coalizione, come nella prima versione, ma una lista, come voluto da Renzi quando si sentiva Astolfo in sella all’ippogrifo e volava a recuperare il senno della nazione.
Oggi la realtà è cambiata e a nessuno può essere consentito di giocare all in con le chip di tutti. Se alle prossime elezioni il Pd di Renzi non supererà la barriera del 40 per cento (come oggi sembra probabile) al secondo turno partirà avvantaggiato il secondo arrivato. È nella natura delle cose: le opposizioni si coalizzeranno, i gruppi che aspiravano ad una alleanza con Renzi saranno furiosi per il ripudio preventivo. Potrà vincere la qualunque. È già successo nelle corse a sindaco.
Qui non si tratta di una città ma del futuro dell’Italia, però. Renzi, come prima Berlusconi, si è tessuto sulla pelle un costume elettorale di Superman. Ma le istituzioni politiche devono essere costruite in modo da far prevalere la sovranità popolare, non le ambizioni di un leader. O peggio, quelle di chi leader non potrebbe mai diventare se non per via di un clamoroso atto di autolesionismo.