Con il passaggio, non ancora definitivo ma pur sempre decisivo, della riforma costituzionale al Senato, approvata con 179 voti, 18 in più della maggioranza assoluta richiesta per l’ultimo sì e solo 4 in meno della volta precedente, quando la sostennero pure i senatori di Silvio Berlusconi, ora ostili, il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è guadagnato un bel soprannome: “Tuttèpossibile”. Che si legge poi anche sulla fiancata di una bella barca catamarano, a vela e a motore, che naviga generalmente in acque italiane e greche.
A conferire questo soprannome a Renzi è stata in televisione, ospite di Giovanni Floris, la collega di partito Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato. Sì, si tratta proprio di lei: l’ex dalemiana di ferro, sorpresa tre anni fa all’Ikea in abito rigorosamente rosso e con un carrello galeotto, spinto dalla scorta.
L’immagine fece scandalo e fu “miserabilmente” usata, come lei stessa protestò, anche da Renzi per metterla fuori gioco nella corsa al Quirinale, per la successione a Giorgio Napolitano. Che è lo stesso, da presidente ormai emerito della Repubblica e senatore a vita, ora inchiodato politicamente dal Fatto ad un’altra foto, che lo ritrae seduto nell’aula di Palazzo Madama mentre riceve le congratulazioni di Denis Verdini per il discorso appena pronunciato a favore della riforma: la prova, secondo i detrattori di entrambi, di un presunto e inverecondo connubio. “Una foto sulla tomba della Costituzione”, si è arrivati a scrivere.
Per quanto ancora amareggiata per l’incidente del carrello, Anna Finocchiaro ha riconosciuto a un Renzi “fortemente determinato” il merito di avere improvvisamente reso possibile tutto quello che prima di lui non lo era. Be’, un bell’apprezzamento, peraltro versione italiana del tormentone mediatico che portò nel 2009 Barak Obama alla Casa Bianca: We Can. Noi possiamo. Un tormentone inutilmente imitato in Italia da Walter Veltroni nella scalata del 2008 a Palazzo Chigi, dopo la fusione nel Pd dei resti del Pci e della sinistra democristiana.
(BOSCHI, FINOCCHIARO E PINOTTI GONGOLANTI A PALAZZO MADAMA IERI. LE FOTO)
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Appartiene alla serie degli articoli guastafeste della riforma del Senato, sul Corriere della Sera, quello di Stefano Passigli, dopo l’editoriale di lunedì del costituzionalista Michele Ainis.
L’articolo di Passigli, fiorentino, professore universitario di Scienza della politica, più volte parlamentare e due volte sottosegretario, è comparso nelle pagine interne dei commenti, martedì, con un titolo impersonale, tutto dedicato alla riforma del bicameralismo e ai suoi “effetti collaterali”. Ma il passaggio chiave, ai fini della cronaca e della lotta politica, è personale, anzi doppiamente personale, riguardante lo stesso autore e il fuoriuscito da Forza Italia Denis Verdini. Al quale è stata guastata la festa, diciamo così, del contributo dato all’approvazione della riforma.
Di Verdini, il professore Passigli ha voluto contestare la vantata origine spadoliniana, raccontando come fosse toccato proprio a lui, nelle elezioni del 1992, il compito di candidarsi in tutta fretta alla Camera, su sollecitazione telefonica di Giovanni Spadolini e di Bruno Visentini, per evitare che fosse eletto nelle liste del partito dell’edera un Verdini assai sgradito. Che aveva trovato ospitalità come “indipendente” nel Pri dopo essere stato “rifiutato” dal Psi.
Sconfitto nel 1992 da Passigli, che prese “più del doppio delle sue preferenze”, Verdini emigrò “di lì a poco nell’Elefantino di Segni e Fini” per approdare successivamente al Consiglio Regionale della Toscana con Forza Italia, dove sarebbe diventato un dirigente nazionale potentissimo, sino ad uscirne di schianto quest’anno.
(LE ULTIME USCITE PUBBLICI DI GIANFRANCO FINI. LE FOTO DI PIZZI)
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Questa ricostruzione della biografia di Verdini, al netto dei “problemi giudiziari” che Passigli ha definito “consolidati” come il suo “trasformismo politico”, è servita di supporto anche alla richiesta al presidente del Consiglio di non cambiare la legge elettorale in attesa di applicazione per la Camera, che contempla il premio di maggioranza alla lista più votata, e non alla coalizione, come reclamano lo stesso Verdini, i centristi di Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, quel che rimane a Berlusconi di Forza Italia e la “masochistica” minoranza del Pd. Che non si renderebbe conto che il premio di coalizione non favorirebbe una nuova alleanza con Vendola, ma la formazione di “un grande partito di centro” con il quale Verdini e amici potrebbero aspirare ad essere rieletti pur “non avendo i voti”.
Peccato che alla base di tutta questa analisi elettorale e politica del professore Passigli ci sia, volente o nolente, una questione personale, ripeto, con Verdini. Il richiamo a due testimoni che hanno un inconveniente incolmabile, essendo morti sia Spadolini sia Visentini, non aiuta il professore. Al quale questa volta temo che il piede sia proprio scivolato sulla frizione del buon gusto. Sono gli inconvenienti della passione politica, cui non riescono a sottrarsi neppure i docenti. Che già non scherzano quando si contendono le cattedre. Non è il caso naturalmente di Verdini, che non aspira certamente a cattedre, anche se Berlusconi, negli anni della loro armonia, avrebbe potuto procurargliene qualcuna nelle scuole di formazione che ha via via allestito o annunciato nella sua esperienza politica. Ma che già praticava e faceva praticare dai manager delle sue aziende quando se ne occupava a tempo pieno.