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Chi scarica (e chi no) Ignazio Marino

Ragioni di misericordia, imposte a un cristiano anche dall’imminenza di un apposito Giubileo indetto dal Papa felicemente regnante, dovrebbero indurre alla difesa del pur stravagante Ignazio Marino di fronte alla durezza delle accuse e delle critiche che gli vengono mosse, come vedremo, anche da chi dice di volerlo aiutare.

Giannelli, da par suo, lo ha appena raffigurato con la china del Corriere della Sera sulla torre del Campidoglio, sporto nel vuoto dopo avere finalmente consegnato le dimissioni da sindaco ma ugualmente deciso a darsi del tempo per ripensarci. Nella piazza ormai svuotata dei fan stanchi di applaudirlo, senza uno straccio di tela di protezione stesa per salvarlo, ci sono due uomini vestiti di nero, mandati probabilmente dai due Mattei, Renzi e Orfini, che lo incitano a “non fare scherzi” e buttarsi giù “presto”.

Sul Fatto Bruno Tinti gli ha dato dello “stolto” e dello “sciagurato”, pur apprezzandone l’abitudine di “dire quello che pensa, anche se è una boiata”.

Sempre sul Fatto, in un turpiloquio incontinente Antonio Pennacchi, addirittura Premio Strega, ha definito “ricottaro” il sindaco uscente di Roma, anche per avere ingenerosamente emarginato dopo le elezioni l’ex assessore alla cultura di Alemanno, Umberto Croppi, che nella scalata al Campidoglio gli aveva dato una mano. E così, furente, Pennacchi gli ha negato con una parolaccia il diritto di considerarsi “capro espiatorio” e lo ha mandato più volte a quel posto che Beppe Grillo evoca abitualmente nei suoi comizi.

Il filosofo e professore, nonché ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari sul Resto del Carlino ha dato a Marino del “delirante megalomane”. Il professore, pure lui, Giovanni Orsina, si è fermato sulla Stampa alla estraniante definizione di “marziano”. Condivisa sul Corriere della Sera da Antonio Polito, e anche da un’amica e assessore di Marino come Marta Leonori, che di suo ha aggiunto anche la qualifica di “scienziato” per spiegarne l’abitudine di scrivere tutto e di tutto, riempiendo agende e quaderni, di ogni colore. Destinati non a ricattare gli improvvidi questuanti trasformatisi in accusatori, come dicono i suoi avversari, ma solo a “non fargli dimenticare” niente.

(QUANDO RENZI E IL PD COCCOLAVANO IGNAZIO MARINO. ARCHIVIO PIZZI)

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Pur così malmesso, con il contributo autolesionistico anche di quelli che lo preferiscono all’odiatissimo Renzi, che finirà poi, fortunato com’è, a trarre vantaggio anche da questa contrapposizione a un personaggio così singolare, Marino è riuscito, forse inconsapevolmente, a terremotare con le sue disavventure tutti gli schieramenti, e a rimettere in discussione miti e certezze. Non dargliene atto sarebbe disonesto, anche se, magari, non gli risulterà gradito.

Arrivato al Campidoglio cavalcando le primarie, contro ogni previsione nel suo partito, Marino ha finito per metterne in evidenza la debolezza per i rischi che esse fanno correre, specie quando non sono disciplinate con regole sicure, valide per tutti e ovunque, come può accadere solo con una legge.

Persino Renzi, arrivato pure lui dov’è grazie alle primarie, prima perdute e poi vinte, ha mostrato in questi giorni tentennamenti annunciando alla fine a Fabio Fazio che torneranno a farsi, ma probabilmente con accorgimenti che aiutino i cittadini a “stare attenti”. I guai d’altronde sono stati troppi: dalla Liguria alla Campania, da Napoli a Venezia. Per non parlare di quelli che aspettano Renzi a Milano, dove non è riuscito a convincere il sindaco uscente Giuliano Pisapia a ricandidarsi.

Sul versante opposto, quello che rimane del centrodestra, l’esperienza di Marino ha rafforzato la posizione notoriamente e ostinatamente contraria di Silvio Berlusconi alle primarie, reclamate invece dai suoi alleati, veri o potenziali, e anche da una parte di ciò che gli è restato di Forza Italia dopo le uscite di Sandro Bondi prima, di Raffaele Fitto poi e di Denis Verdini poi ancora, con il seguito di compagne, familiari e amici. D’altronde, egli cerca per i candidati alle elezioni amministrative della prossima primavera manager più che politici. E nessun manager si lascerebbe mettere sulla graticola delle primarie, per giunta senza regole certe.

Persino i grillini, che sembravano a prima vista i più favoriti in una corsa elettorale per la successione a Marino, sono rimasti più scioccati che compiaciuti delle loro spallate al sindaco dimissionario. Le discussioni interne sui criteri con i quali scegliere il candidato al Campidoglio nascondono forse il timore di vincere la partita elettorale e di scoprirsi inadeguati all’amministrazione di una città così complessa e difficile come Roma, dove un loro sindaco potrebbe trovarsi nelle condizioni, per esempio, del collega della ben più tranquilla e facile Livorno, dove il gruppo pentastellato ne ha dovuto bocciare il bilancio.

(ALFIO MARCHINI CERCA DI SEDURRE PURE IL FATTO DI TRAVAGLIO. LE FOTO DI PIZZI)

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Il fallimento politico di Marino ha infine riproposto al suo partito il problema dei rapporti con i sindaci che non si accontentano di fare, appunto, i sindaci ma usano le loro funzioni per altre scalate. Un problema che Massimo D’Alema, negli anni d’oro della sua carriera politica, definì “dei cacicchi”, quando peraltro non poteva neppure immaginare che sarebbe stato proprio un sindaco a rottamarlo, una volta conquistato il partito e il governo.

In realtà, si possono rottamare le persone sgradite o da troppo tempo in prima fila, ma non i problemi che hanno posto, quando sono veri. Problemi in testa ai quali rimane quello della selezione politica della classe dirigente, ormai talmente degradata da fare rimpiangere dai meno giovani quella della tanto disprezzata prima Repubblica e da fare rivendicare dai vecchi, come Emanuele Macaluso, il merito di avere saputo fare meglio delle nuove generazioni.

(CHI C’ERA ALLE ULTIME RIUNIONI RISERVATE DI ITALIANIEUROPEI CON D’ALEMA. FOTO DI PIZZI)

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