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Che cosa penso delle ultime vicende giudiziarie dell’Eni

La sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal GUP del Tribunale di Milano nei confronti dell’Eni, del suo dirigente Vella e dell’ex amministratore delegato Scaroni per la questione delle presunte tangenti in Algeria, non è una semplice espressione di giustizia, è un torto riparato che vale punti percentuali di capitalizzazione di Borsa.

La Procura milanese negli anni ha imbastito molteplici indagini sull’Eni, ma fino ad ora la società ne è uscita senza macchia, anche se il costo reputazionale pagato è stato enorme, cosi come grandi le occasioni perse sul mercato a causa di atteggiamenti indotti dalle indagini che hanno obbligato a harakiri gestionali azzoppando la competitività del cane a sei zampe in aree geografiche strategiche. Nelle indagini per il consorzio Tskj la procura di Milano, dopo clamorose iniziative, addirittura rinunciò a proseguire contro Eni che era stata inizialmente indagata; per l’indagine su ipotesi di corruzione e malaffare in Kazakistan ancora una volta il Gup ed il tribunale del riesame di Milano rigettarono le richieste della Procura, che addirittura voleva commissariare la società petrolifera, e da oltre 2 anni si attende una archiviazione che ormai rappresenta un atto dovuto. Ora il Gup di Milano ha rigettato le richieste per l’ipotesi di corruzione in Algeria, confermando che l’Eni non aveva né la conoscenza né il controllo dell’operato dei manager Saipem che, invece, sono stati rinviati a giudizio.

Resta il danno procurato alla più importante industria nazionale, che si è ripetutamente trovata esposta ad una gogna mediatica internazionale sulla base del teorema che Eni fa business corrompendo politici e funzionari nei paesi africani e mediorientali. Cui si aggiunge la più pericolosa delle sanzioni e dei meccanismi repressivi che queste vicende, anche se infondate, ingenerano in danno di una società quotata allo Stock Exchange di New York: i procedimenti della Sec e del Doj e le multe stellari che queste istituzioni americane hanno il potere di infliggere, cui è consentito di applicare multe di un valore pari fino a tre volte il prezzo della corruzione.

In altri termini, l’avvio di indagini penali in Italia per fatti di corruzione internazionale innescano le norme anti-bribery americane e la competenza worlwide del sistema di giustizia americano; quindi nel mentre l’Eni si difende dalla persecuzione giudiziaria, negli Usa schiere di public prosecutor avviano indagini dovendo garantire a chi investe sul mercato borsistico americano una zero tolerance rispetto a fenomeni di malaffare.

Ma la lentezza e l’incomprensibilità dei procedimenti italiani diviene un fattore di pregiudizio agli occhi degli investigatori americani che, in attesa di un pronunciamento della giustizia italiana, iniziano a congetturare e richiedere quintali di informazioni all’indagato, con costi monumentali. La stessa pendenza di un’indagine o di una volountary disclosure negli Usa diventa, poi, un campanello di allarme rosso per gli investitori, che iniziano a temere l’applicazione di draconiane sanzioni pecuniare che possono azzerare lo stesso valore del titolo azionario o determinare il tracollo dell’impresa. Non solo. Sul versante interno l’impresa subisce un terremoto che determina costi gestionali, indagini interne, irrigidimento di policy aziendali, accantonamenti, spese straordinarie e riorganizzazioni operative, con costi facilmente immaginabili. Poi il teorema accusatorio casca e tutto si conclude con una pronuncia di non luogo a procedere, ma intanto i prezzi pagati sono altissimi.

E la storia rischia di ripetersi. La Procura di Milano, infatti, ha avviato un’ulteriore indagine – per una sospetta corruzione in Nigeria per l’acquisto del blocco esplorativo OPL 245 – e anche in questo caso c’è un intreccio di faccendieri, intermediari e politici, quintali di intercettazioni e un sacco di congetture. Entro la fine dell’anno è attesa la richiesta di rinvio a giudizio e la conseguente udienza preliminare. Eni, dovendo ancora una volta parare il colpo, si è già presentata alle autorità statunitensi protestando la propria innocenza, ha ingaggiato stuoli di avvocati americani per verificare in maniera indipendente la propria innocenza e l’inesistenza di qualsivoglia ipotesi corruttiva. Ancora una volta il Doj sta alla finestra, ed addirittura non ha nemmeno mosso contestazioni od aperto un procedimento. Tuttavia, non sono mancate le richieste di cacciare gli empi (primo fra tutti Descalzi) e di prepararsi a pagare 3 miliardi di multa.

Senza che nessuno, per esempio, abbia notato che la Shell – che in Nigeria ha comprato il blocco OPL245 insieme ad Eni, pagando le stesse somme con le stesse modalità – non sia stata indagata e non abbia subito alcuna contestazione.

Per carità, l’Eni ha ormai maturato gli anticorpi necessari, implementando un sistema di compliance ed anticorruzione che nel mondo è diventato un vero e proprio benchmark di trasparenza. Ma la domanda cui qualcuno a Milano dovrà pur rispondere è: a quale prezzo?

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