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George Pell: lettere, incursioni e retromarce

vaticano

Ogni volta che c’è qualche “trama” che secondo la vulgata mediatica che va per la maggiore è diretta contro il Papa Francesco, il nome che salta fuori è quello di George Pell. Cardinale australiano dalla stazza imponente, celebre per il suo spiccato conservatorismo e per qualche gaffe dal sen fuggita durante le inchieste in patria sugli abusi sessuali da parte del clero locale su minori. Anche stavolta, nei giorni convulsi in cui in Vaticano più che di famiglia si parlava di lettere e letterine contro i metodi poco collegiali del nuovo Sinodo apparecchiato dal tandem Bergoglio&Baldisseri, il primo nome a essere fatto è quello di Pell. Alla fine l’ha ammesso pure lui di essere l’ispiratore della missiva che Sandro Magister ha messo online sul proprio sito, con tanto di elenco di firmatari non propriamente corretto. E l’ha certificato anche Dolan, l’americano di New York che neanche un mese fa diceva in San Patrizio a Francesco “come back soon, torna presto”. Pell, tramite un portavoce, ha chiarito che sì, lui la lettera l’ha scritta, ma non era quella uscita. E anche le firme erano sbagliate. Un pasticcio che ha fatto infuriare il tedesco Müller del Sant’Uffizio, che il foglio l’ha sì siglato, ma mai avrebbe voluto che finisse nel calderone mediatico.

Eppure Pell in Vaticano l’ha chiamato proprio Bergoglio, affidandogli niente di meno che la Segreteria per l’Economia, organismo creato appositamente per lui dopo gli scandali degli anni scorsi che avevano azzoppato il pontificato già traballante di Benedetto XVI. Arriva il rugbyer, si diceva un po’ dappertutto. Arriva a fare pulizia, a mettere le cose in ordine, finalmente. Ma fin da subito si è creato un cortocircuito, con gli altri centri di potere finanziario che guardavano con sospetto quell’ufficio, temendo di perdere peso e diritto di parola sulla questione “soldi”. C’era il problema degli statuti, non si sapeva chi avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa. C’erano le tensioni con la Segreteria di Stato, ma soprattutto con l’Apsa, l’Amministrazione per il patrimonio della Sede apostolica. Lo scorso febbraio, L’Espresso pubblicò documenti “riservatissimi” su qualche riunione dell’organismo guidato dal cardinale Domenico Calcagno, di antica osservanza bertoniana.

L’Espresso diceva il vero: in campo due squadre: da una parte quella di Pell, dall’altra quella di Parolin (segretario di Stato). A sorpresa, uno dei più spietati riguardo la gestione dell’australiano era il francese Jean-Louis Tauran, che parlò di “fase di sovietizzazione”, per il timore che dentro la Segreteria per l’Economia finissero tutte le strutture finanziarie della Santa Sede. E con Tauran c’erano Re, Versaldi e Calcagno. Pure il vicario di Roma, Agostino Vallini, si lamentava. Pell aveva infatti deciso (assieme al presidente dello Ior da lui scelto, Jean Baptiste de Franssu) di cancellare il prestito di 50 milioni – già formalizzato – in favore dell’Idi, l’ospedale dermatologico della Capitale che versava in precarie condizioni di bilancio. Vallini chiariva che “se fallisse, i danni di immagine, di rapporti politici, diplomatici, giuridici e il problema dei dipendenti sarebbe notevole”.

A non piacere ai confratelli è anche il metodo che è solito usare Pell: pochi confidenti fidati, pochi collaboratori e tante mail spedite per far sapere quali sono le decisioni (il cardinale Attilio Nicora protestò veementemente contro l’abuso della posta elettronica). Una falange che col tempo avrebbe fatto breccia anche nel cuore di Papa Francesco, tanto che i rapporti con l’australiano oggi sarebbero “moderatamente freddi”, dicono i bene informati del Vaticano. Prova ne è che la Segreteria per l’Economia è stata progressivamente spogliata di tanti compiti e responsabilità che pure in origine le sarebbero spettate. Pell, comunque, ha sempre ridimensionato l’importanza dell’opposizione alle sue riforme, che sarebbe costituita solo “da una piccola porzione della curia”.



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