Il premio Nobel per la letteratura 2015 è Svetlana Alexievich. È nata in Ucraina nel 1948, ma è cresciuta in Bielorussia, Paese di origine del padre. Le violenze del regime di Aleksandr Lukashenko l’hanno costretta a lasciare Minsk per vivere a Parigi, Stoccolma e Berlino. Nel 2011 è tornata nella madrepatria perché, ha detto, “non ho mai imparato la lingua locale. I miei genitori sono morti e i miei nipoti presto andranno a scuola. Dovevo tornare. Semplicemente devo stare nel luogo di cui scrivo”.
I VOLTI DELLA GUERRA
Alexievich è, prima di tutto, una giornalista d’inchiesta. Non ha mai scritto un vero e proprio romanzo. Ha redatto racconti brevi e poesie, ma è la storia sovietica ad appassionarla: “Ho scritto cinque libri, ma di base da 40 anni scrivo la stessa storia. Si tratta della cronaca russa e sovietica: rivoluzione, gulag, guerra, Cernobyl, la caduta dell’Impero rosso”, ha raccontato in un’intervista a Deutsche Welle. Ha voluto scrivere di alcune tragedie con un taglio umano. Sostiene che, grazie alla guerra, ha “imparato ad amare ogni aspetto della natura, ogni uccello e ogni formica che cammina per strada”.
È molto conosciuto a livello internazionale il suo Preghiera per Cernobyl (e/o edizioni, 2002), un libro che racconta la tragedia nucleare attraverso le parole dei superstiti. Per realizzarlo, si è documentata per più di vent’anni, raccogliendo testimonianze, esperienze e traumi.
STORIA OMESSA DI CERNOBYL
Un testimone dell’esplosione di Cernobyl spiega come suo figlio sia morto per un tumore al cervello dopo aver indossato un cappellino che egli stesso aveva portato nella centrale; una giovane sposa, Liudmila Ignatenk, ricorda l’agonia in ospedale del marito, Vasili Ignatenko, uno dei pompieri che ha cercato di domare l’incendio. Con un collage di ricordi, in una specie di romanzo collettivo, l’autrice mette in risalto la minaccia e i difetti del progetto sovietico, attraverso storie di vita. Nell’introduzione del libro, Alexievich fa un’intervista a se stessa per far comprendere a chi legge i motivi che l’hanno spinta a scriverlo: “Sono passati 10 anni da Cernobyl. È diventata una metafora, un simbolo. Si sono prodotte decine di libri, fiction, documentari. Perché vuoi farlo? È normale che la gente voglia dimenticare, lasciarsi tutto dietro… Questo libro non parla di Cernobyl, ma del mondo di Cernobyl. Quello di cui sappiamo poco. Quasi niente. È una storia omessa. Così la chiamerei io”.
VOCE DELLA DISSIDENZA
Il libro ha vinto il premio del Circolo dei critici degli Stati Uniti nel 2006, per la sua forza narrativa e il valore delle storie raccontate. Alexievich ha vinto anche il premio Ryszard Kapuscinski in Polonia nel 2011, l’Herder in Austria nel 1999 e il Premio della Pace dei librai tedeschi. Ma in patria non è stato ben accolto. Le poche copie che circolavano, anche in Russia e in Ucraina, erano libri che lei stessa comprava e distribuiva clandestinamente tra amici e conoscenti.
“QUESTO L’HANNO FATTO I RUSSI”
“Una giovane afgana ha un bambino in braccio, avvolto in una coperta. Mi avvicino a lei e noto che il bambino ha un peluche stretto tra i denti. Chiedo alla mamma perché lo fa e mi fa vedere che il piccolo non ha braccia né gambe. ‘Questo l’hanno fatto i russi’, mi dice. Un capitano sovietico che è accanto a lei mi spiega: ‘Questa donna non capisce che le abbiamo portato il socialismo’ ”. Ragazzi di zinco (e/o edizioni, 2003), il libro da cui è tratto questo brano, è stato proibito per 10 anni in Bielorussia, perché ritrattava la versione ufficiale dell’intervento sovietico in Afghanistan. Alexievich racconta la guerra sul territorio di Kabul dal punto di vista dei veterani e delle mamme dei caduti. Per scriverlo, la giornalista ha viaggiato nell’Unione sovietica e in Afghanistan per quattro anni. È stata accusata di profanare il ricordo degli eroi di guerra. In Incantati dalla morte (e/o edizioni, 2005), invece, ha condotto un’inchiesta sui suicidi delle persone che non hanno sopportato il fallimento del modello socialista.
GRANDIOSITÀ DELLE VITE ORDINARIE
Alexievich ricorda che i suoi intervistati “piangono molto. Urlano. Quando me ne vado prendono pillole per il cuore, chiamano il medico. Ma nonostante questo mi pregano: ‘Torna. Abbiamo taciuto per 40 anni’ ”. Giornalista paziente e discreta, chi la conosce dice che durante le sue interviste resta in silenzio e ascolta. Prende appunti. È coraggiosa e ambiziosa. La sua libertà di espressione è stata più volte minacciata, perché è considerata una voce insolente e scomoda. Antisovietica e dissidente. Lei però, dicono i critici, si è limitata a raccontare storie reali. La raccolta di cento di voci comuni che spiegano meglio di tutte le altre il dolore, la miseria e la grandiosità che si nascondono a volte nelle cosiddette vite ordinarie.