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Il Corriere della Sera si agita su Marino

Ignazio Marino, il sindaco ancora provvisoriamente dimissionario di Roma, con riserva di ripensarci sino alla ricorrenza dei morti, il 2 novembre, è tornato a colpire. È riuscito ad esportare lo scompiglio dal suo partito al Corriere della Sera. Il cui direttore, Luciano Fontana, deve avere avuto problemi anche all’interno del giornale, oltre che all’esterno, per la difesa proprio di Marino assunta dal costituzionalista Michele Ainis in un editoriale pubblicato sulla prima pagina dell’inserto quotidiano della Cronaca di Roma.

Agli elogi di Ainis per la chiusura della discarica di Malagrotta, per l’apertura della Metro C, dove peraltro non mancano problemi, per la pedonalizzazione dei Fori romani, per lo sgombero dei camion-bar dalle adiacenze del Colosseo e per la mobilità imposta a troppi vigili impoltroniti, è seguita il giorno dopo, nella stessa collocazione tipografica, la frusta della notista politica Maria Teresa Meli. Della quale è nota la simpatia politica e personale per Matteo Renzi.

Altro che “damnatio memoriae” immeritata e perciò lamentata da Ainis. “Persino i sondaggi più lusinghieri – ha scritto la Meli di Marino – non gli regalano neppure l’ombra di una maggioranza. È chiaro a lui, come a chiunque viva nella Capitale, che i romani non lo vogliono più in quel posto”. Parole, queste, presumibilmente sfuggite alla notista politica del Corriere per il pesante doppio senso al quale si presta “quel posto”. Dove comunque “la città mi chiede di restare”, ha appena replicato il sindaco su Repubblica.

Marino, secondo la Meli, “trascina Roma sempre più in basso” col “braccio di ferro” ingaggiato col suo partito per ottenere, rinunciando a ritirare le dimissioni e/o a mettere su per le prossime elezioni una lista di disturbo, “molto più dell’onore delle armi”: magari, “una sistemazione futura per sé e per i suoi”, come “insinuano i maligni”. Superando in malizia, evidentemente, la notista del Corriere.

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In casa Pd si segnala per il suo irrealismo il dibattito aperto dalla nuova gestione della vecchia Unità su Enrico Berlinguer a più di 31 anni dalla sua morte sul campo, dopo un comizio a Padova, e a qualche mese dal docu-film evocativo voluto in chiave santificatrice da Walter Veltroni.

Conservatore, come lo stesso Berlinguer amava definirsi nei giorni pari, e come Biagio De Giovanni considera che sia stato anche nei giorni dispari, o prevalentemente rivoluzionario, come ritiene che sia stato Beppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci. Rivoluzionario tuttavia nei limiti in cui poteva esserlo il segretario di un partito che aveva rinunciato con Palmiro Togliatti alla rivoluzione intesa in senso classico partecipando alla Costituzione fondativa della Repubblica e cercando poi di preservarne, cioè conservandone, spirito e lettera.

Il carattere surreale di questo dibattito, ormai utile solo a misurare le distanze siderali fra il Pci di Berlinguer, rimpianto forse dalla “ditta” di Pier Luigi Bersani e compagni, e il Pd di Renzi, deriva dal fatto che la discussione su questa materia fu onestamente e coraggiosamente chiusa nel 2003 dall’allora e ultimo segretario dei Democratici di Sinistra, ex Pds, ex Pci, Piero Fassino. Che  accompagnò dopo quattro anni i post-comunisti alla fusione con i post-democristiani di sinistra della Margherita.

A pagina 156 della sua autobiografia dal titolo “per passione”, rigorosamente e umilmente al minuscolo, ma che avrebbe potuto essere anche “per verità”, Fassino approfondisce “il conflitto” esploso a sinistra negli anni Ottanta del secolo scorso fra Craxi e il Pci  berlingueriano. “Craxi – racconta Fassino – interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo. Il Pci invece vede nei cambiamenti un’insidia, anziché un’opportunità, e si arrocca in un atteggiamento difensivo, che ne ridurrà influenza e credibilità politica”. In effetti, come testimoniato da Emanuele Macaluso proprio sull’Unità, Berlinguer ha voluto orgogliosamente rimanere sino all’ultimo “comunista”, sia pure “italiano”, cioè non di stile sovietico.

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In quegli anni Ottanta evocati dall’attuale sindaco di Torino ricordo che il  non ancora deputato Umberto Ranieri, amicissimo di Giorgio Napolitano, diversamente dal berlingueriano Fassino, mi raccontava di riunioni di partito in cui gli capitava di assistere ad attacchi forsennati a Craxi ch’egli cercava inutilmente di contrastare dicendo: “Guardate, compagni, che quello ha ragione. Siamo noi ad avere torto”. E si prendeva del “traditore”.

Ma passiamo alla pagina 161 del libro di Fassino, non a caso oggi fra i pochi post-comunisti sostenitori di Renzi, per leggere il commento alla tragica fine dell’allora segretario del Pci: “Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita. La partita dura ormai da molte ore, sta giungendo alle battute finali. Guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova”. E strappare al pubblico per l’emozione l’applauso che avrebbe meritato l’antagonista.

“In fondo la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica”, ha scritto Fassino con una onestà che gli fa onore, rendendo semplicemente ridicoli i compagni che ancora si arrampicano sugli specchi per sfuggire alla realtà. E trattare anche Renzi, al pari di Craxi, come un intruso prepotente nella sinistra. Un imbucato, come Marino apparve al Papa nella trasferta a Filadelfia. E così chiudo, come ho cominciato, con il sindaco provvisoriamente dimissionario di Roma.

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