“Je ne suis pas français” è la frase che risuona nelle banlieues francesi, dove sono sempre più numerosi i giovani, in particolare di seconda e terza generazione, che non solo non si riconoscono nelle istituzioni della Republique, ma rifiutano di sentirsi parte della società in cui sono nati e cresciuti. Come la Francia, altri paesi europei sono confrontati alla stessa sfida, che è oggi una delle più difficili che istituzioni e società civile europea si trovano ad affrontare, anche perché non riguarda solo giovani disagiati o marginalizzati, ma anche giovani provenienti da ceti sociali più agiati, che esprimono lo stesso estremo bisogno di dare un senso alla loro esistenza; un bisogno che sembra quindi essere innanzitutto generazionale e non solo politico-sociale.
È proprio sul sentimento di rifiuto a far parte di una società accusata di escluderli ed umiliarli, in particolare se musulmani, che si fonda l’adesione a forme d’appartenenza spesso immaginarie, se non del tutto inventate, ma che possono diventare terribilmente reali, come quella proposta dall’ISIS, che invita “semplicemente” ad una nuova identità ed a nuove modalità d’azione capaci di riempir di senso laddove le società europee non riescono a darne.
Benché tale fenomeno non sia assente, l’Italia è piuttosto confrontata ad un’altra sfida, quella di una nuova generazione di figli di migranti, nati e cresciuti in Italia, che domandano di essere riconosciuti come parte integrante della società in cui vivono e, più precisamente, di essere riconosciuti come italiani e, nel caso specifico dei musulmani, come cittadini italiani di fede islamica. La questione non è solo legale, ma ha a che vedere con il sentimento d’appartenenza, con l’identità stessa di una nuova generazione che sta producendo la più importante trasformazione da quando, all’inizio degli ani ’80, l’islam ha fatto la sua comparsa in Italia. Il loro senso d’appartenenza interroga infatti tanto il modo di pensarsi dei genitori quanto il modo d’essere della società italiana.
I primi, migranti con lo sguardo spesso rivolto verso il paese d’origine e con l’idea sempre viva del ritorno, cominciano infatti a realizzare che il loro futuro è in Italia, ossia là dove vivono da una vita, che i loro figli si sentono italiani (anche se non ancora riconosciuti dalla legge), e che è ormai necessario uscire dalla marginalità e dall’isolamento che han spesso caratterizzato i primi trent’anni dell’islam in Italia. In altre parole, è sempre più evidente che non possono continuare a restar chiusi nei loro scantinati trasformati in moschee, ma che devono aprire le loro comunità ed assumersi nuove e più importanti responsabilità nei confronti della società in cui vivono e di cui i loro figli si sentono parte.
Allo stesso tempo, quegli stessi giovani chiedono alla società italiana, a cominciare dalle istituzioni, una trasformazione altrettanto importante, ovvero d’includere l’islam e i musulmani nella costruzione della società di cui fan parte, anche attraverso la concessione della cittadinanza che molti di loro ancora non hanno.
Di fronte alla sfida lanciata dalle nuove generazioni, due possibili scenari sembrano delinearsi. Il più plausibile è che in Italia avvenga quanto successo in paesi di più antica immigrazione, ossia che, difronte al protrarsi di esclusione e marginalizzazione dell’islam e dei musulmani, accanto ad alcuni processi d’effettiva inclusione che del resto già esistono, si assista all’espandersi del rifiuto di una parte dei giovani di seconda generazione a far parte del paese in cui vivono. Rifiuto che rispecchierebbe una doppia incapacità, quella della società ad includerli e quella delle comunità ad intraprendere una trasformazione per uscire dall’autoreferenzialità e dalla marginalizzazione. Ma l’Italia, a differenza dei paesi nordeuropei, ha un duplice vantaggio: innanzitutto di poter contare su una generazione emergente che chiede esplicitamente di essere riconosciuta come italiana ed in secondo luogo ha il vantaggio di poter far tesoro degli errori commessi altrove.
L’esito dipenderà sì dalla capacità dei giovani di seconda generazione di comunicare con il resto della società e d’imporsi all’interno delle loro comunità, ma anche dalla capacità di quest’ultime di rinnovarsi, abbandonando un atteggiamento vittimistico ed assumendo nuove responsabilità. Ma decisive saranno anche le risposte che saranno fornite delle istituzioni, finora assenti o mosse da meri calcoli elettorali, spesso incapaci di comprendere che le città italiane, benché continuino ad essere amministrate secondo una logica emergenziale, stanno diventando sempre più plurali e complesse. Intanto, una legge sulla cittadinanza che introduca effettivamente lo ius soli sarebbe un primo passo per evitare che un giorno una parte dei nostri giovani dica “io non sono italiano”.