L’Italia tentenna? Il governo traccheggia? Afghanistan, Iraq, Muos, Siria, Ucraina: sono questi alcuni dei dossier in politica in cui, secondo molti osservatori, Palazzo Chigi e Farnesina non mostrano particolare risolutezza.
AFGHANISTAN
Ieri Matteo Renzi, racconta oggi Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera, ha incontrato al Quirinale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al centro del colloquio la permanenza dei nostri soldati in Afghanistan, oggi 760. Un argomento che, spiega il quotidiano di Via Solferino, sarà affrontato di nuovo “domani, nel Consiglio Supremo di Difesa“. Una riunione già convocata, ma che servirà “per definire la posizione del nostro Paese, dopo il pressing della Nato” e degli Stati Uniti, che hanno deciso di lasciare le loro truppe sul territorio di Kabul.
Nel pomeriggio di ieri, l’agenzia di stampa Reuters dava per certo l’impegno di Roma, rivelando che, secondo fonti dell’Alleanza atlantica, “Germania, Turchia e Italia manterranno il dispiegamento di truppe” in quell’area.
Eppure ci sono ancora alcuni ostacoli, posti in evidenza proprio nell’articolo del Corriere. Da un lato, come scrive Maria Teresa Meli, “formalmente non c’è bisogno di un voto del Parlamento per decidere o meno della nostra missione (voto che, invece, è necessario per il finanziamento). Basta che il governo (come, peraltro, già accaduto) annunci la propria decisione in una riunione congiunta delle commissioni Esteri e Difesa della Camera dei Deputati e del Senato)“. Dall’altro, “in questa fase così delicata (la legge di Stabilità sta per arrivare alla prova dell’Aula di Palazzo Madama), il premier non vuole nuove contrapposizioni e polemiche. Per questa ragione intende discuterne a breve all’interno del partito” e “ha chiesto al presidente del Pd Matteo Orfini di convocare la Direzione“. Riunire per decidere o per prendere tempo?
IRAQ
Un altro fronte in cui l’Italia traccheggia è quello iracheno, messo a ferro e fuoco dai drappi neri. Nelle scorse settimane, in concomitanza con la visita nel nostro Paese del segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, Franco Venturini delineava sul Corriere della Sera uno scenario in cui Palazzo Chigi sarebbe stato in procinto di partecipare attivamente ai bombardamenti contro l’Isis in Iraq. Fino ad ora, Roma ha preso parte della Coalizione internazionale anti Califfato in Iraq, ma nessun militare tricolore ha mai usato armi, né i nostri Tornado sono andati oltre la “illuminazione” dei bersagli dei drappi neri, poi abbattuti dai caccia alleati. Il governo, però, con una nota della Difesa, frenò subito, dicendo “che sono solo ipotesi da valutare assieme agli alleati e non decisioni prese che, in ogni caso, dovranno passare dal Parlamento”.
Anche in questo caso, tuttavia, ha scritto su Formiche.net il generale Carlo Jean, Palazzo Chigi attenderebbe inutilmente, perché avere l’avallo delle Camere non è “indispensabile” e “tirare in ballo la Costituzione” è sbagliato. In questo caso, secondo l’esperto di geopolitica, l’intervento è già “coperto dalla risoluzione delle Commissioni congiunte Difesa ed Esteri dell’estate 2014, che autorizzava la partecipazione italiana alla coalizione. Lo si voglia o no, sin dall’inizio la missione è stata di combattimento”. Lo stesso dicasi “per l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È resa superflua dal fatto che è lo stesso governo di Baghdad a chiedere il sostegno armato della coalizione”.
SIRIA (E LIBIA)
Diverso, ha concluso Jean, “sarebbe il caso della Siria“, perché “il governo di Damasco” ha chiesto di intervenire “solo alla Russia”. Eppure, ha sottolineato Angelo Panebianco in un recente editoriale pubblicato sul Corriere della Sera diretto da Luciano Fontana, “il modo in cui Renzi ha deciso di trattare le questioni siriana e libica non convince“. “Abbiamo scelto“, ha rimarcato il politologo, “di non contribuire con azioni di fuoco ai bombardamenti della coalizione anti Stato Islamico (lo faremo, e stiamo decidendo come e quando, solo in Iraq). Non partecipando a tali azioni di fuoco della coalizione in Siria ne restiamo membri di serie B. Corriamo rischi (i nostri aerei svolgono attività di intelligence) ma non partecipiamo a pieno titolo, col diritto di dire la nostra, all’attività decisionale della coalizione“. Dall’altro lato, “ci siamo dichiarati disponibili a guidare una rischiosissima missione militare (eufemisticamente descritta come peace enforcing) contro i gruppi armati che alimentano il caos libico. Come mai? Eppure è chiaro che le due cose sono interdipendenti, è chiaro che se non si riesce a indebolire lo Stato Islamico non sarà neppure possibile pacificare la Libia. E, inoltre, come mai, rinunciando a bombardare lo Stato Islamico, rinunciamo anche alla forza negoziale che quella partecipazione ci conferirebbe, per esempio, ai tavoli ove si decide come fronteggiare il flusso di profughi in fuga dalla Siria?“.
UCRAINA
Le cose non vanno apparentemente meglio neppure in Ucraina. Mentre anche il Regno Unito ha annunciato l’invio di centocinquanta soldati in Polonia e Ucraina, l’Italia s’è finora dimostrata fredda nei confronti della crisi di Kiev. La posizione della Penisola, si nota in ambienti diplomatici, non è sfuggita oltreoceano, nemmeno durante i recenti colloqui con rappresentanti Usa, compreso quello tenuto il 7 ottobre a Roma tra il ministro della Difesa Roberta Pinotti e il numero uno del Pentagono Carter. Washington continua ad avere un atteggiamento intransigente – forse ancor più che rispetto allo Stato Islamico – nei confronti delle aggressioni russe che hanno portato all’annessione unilaterale della Crimea, ai disordini nelle province nell’Est ucraino e che ora preoccupano alcuni alleati Nato come Varsavia e i Paesi Baltici. L’Italia, invece, fanno notare diversi osservatori, è ritenuta oscillante, per usare un eufemismo.
L’Ucraina ha chiesto da tempo un sostegno concreto all’Alleanza Atlantica: non armi, ma ad esempio, rimarcava il Daily Beast, tecnologia all’avanguardia per neutralizzare o controllare le sofisticate armi fornite da Mosca ai ribelli filo russi. Ciascun membro della Nato, ricordava il sito governativo russo Sputnik, doveva prendere “una decisione individuale sul tipo di assistenza tecnico-materiale, tecnico-militare da fornire” al Paese. E mentre altri Paesi hanno esaudito le richieste di Kiev, Roma non ha ancora risposto all’appello, facendo registrare una distanza sempre maggiore non solo dalle posizioni della Casa Bianca, ma anche di partner dell’Ue come Londra e Parigi. O anche da Berlino, che – raccontava l’International Business Times – ha lanciato un messaggio chiaro al Cremlino, annunciando l’invio di 154 mila dei suoi circa 180 mila soldati attivi e l’aggiunta di altri 20 milioni di euro nel suo bilancio militare di quest’anno per le esercitazioni militari della Nato, mosse lette dalla testata come “un avvertimento velato alla Russia circa il suo coinvolgimento nel violento conflitto civile in Ucraina”.
MUOS
C’è, infine, un altro capitolo, che pur coinvolgendo in prima battuta il versante domestico, ha implicazioni di carattere sovranazionale: il Muos. Il dossier è ormai indicato da più parti come fonte di serio imbarazzo per il nostro Paese e rischia di mettere a repentaglio le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico. Il Muos, acronimo di Mobile User Objective System, è un programma di comunicazione satellitare a banda stretta di nuova generazione del Dipartimento della Difesa per sostenere le operazioni militari Usa e Nato in tutto il mondo. Un’opera strategica per l’Alleanza Atlantica, che è solo una parte di una costellazione di quattro satelliti operativi, di cui due negli Stati Uniti e uno in Australia, che consentiranno di rivoluzionare le comunicazioni militari e coprire l’intero pianeta. L’unico fermo è proprio quello in Italia, bloccato da una lunga serie di beghe politiche e giudiziarie. Anche in questo caso, Palazzo Chigi, sono molte le implicazioni negative dello stop. “Il blocco per la costruzione in Sicilia di questo centro“, ha scritto di recente Paolo Mastrolilli su La Stampa, “è non solo un serio contrattempo strategico per Washington, ma anche una contraddizione della collaborazione necessaria a contrastare la minaccia comune del terrorismo, affacciato ormai sulle coste dell’Africa settentrionale”. Come può l’Italia, “chiedere aiuto agli Usa per difendersi dall’Isis che infiltra la Libia, e poi tappare un orecchio fondamentale per le comunicazioni militari“? Il dubbio rimbalza insistentemente anche nelle stanze del Pentagono e nello Studio Ovale, dove, ricordava il quotidiano diretto da Mario Calabresi, si fa davvero fatica a comprendere come questioni che hanno a che fare con la sicurezza nazionale, come appunto il Muos, possano essere lasciate nelle mani di un tribunale amministrativo regionale, tanto più dopo “che uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità ha concluso che l’installazione” dell’impianto satellitare “non impatterebbe negativamente sulla salute della popolazione”.