L’ultima attribuita a Ignazio Marino, anzi la penultima, perché nel frattempo gliene sarà venuta in testa qualcun’altra, è la pretesa che nel calcolo dei venti giorni concessigli dalla legge per un eventuale ritiro delle dimissioni da sindaco di Roma, solo a parole “irrevocabili”, si tenga esclusivamente di quelli feriali, o lavorativi.
Solo in questo modo, partendo da lunedì 12 ottobre, quando la lettera di rinuncia sarà depositata e protocollata negli uffici capitolini, sarebbe possibile al sindaco di arrivare ancora in carica alla prima udienza del processo di Mafia Capitale, il 5 novembre. Dove egli si è ripetutamente vantato di aver fatto costituire il Comune come parte civile contro i quasi 60 imputati, fra i quali l’ex sindaco Gianni Alemanno. Che tuttavia è accusato solo di corruzione, non più di mafia, per i favori concessi e i soldi presi dalle cooperative rosse di Salvatore Buzzi, e del nero Massimo Carminati, detto er cecato. Lo stesso Buzzi, fra l’altro, che partecipò al finanziamento anche della campagna elettorale del successore di Alemanno, tanto da far meritare alle sue cooperative la devoluzione del primo stipendio del nuovo sindaco.
Marino non vuole rinunciare alla soddisfazione e all’impatto mediatico della sua partecipazione all’apertura del processo con la sua brava fascia tricolore al collo, la stessa recentemente portata, con esito però alquanto infelice, nella lontana Filadelfia per assistere alle cerimonie del Papa in visita negli Stati Uniti.
(LE FACCE PIU’ ATTAPIRATE DI MARINO VISTE DA PIZZI. LE FOTO)
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Ma oltre alla soddisfazione, personale e mediatica, di partecipare come sindaco all’apertura del processo di Mafia Capitale, Marino si propone nella moratoria concessagli dalla legge di risollevare il suo credito nelle piazze romane, e forse anche non romane, da lui dichiaratamente preferite alle “terrazze” e salotti attigui. Un credito che è stato compromesso dalle polemiche a suo parere “manipolate” sugli scontrini e sugli invitati non sempre “istituzionali” alle cene pagate con la carta di credito del Comune. Manipolate, sempre secondo lui, allo scopo di levarselo fra i piedi e di “sovvertire il voto popolare” che lo portò due anni e mezzo fa in Campidoglio.
Che qualcosa si stia muovendo, nelle piazze e dintorni, non si può onestamente negare, anche se non si capisce ancora bene se più a favore del sindaco per ora dimissionario o, fuori e dentro il Pd, contro Matteo Renzi, considerato il regista delle disgrazie di Marino.
Si sono distinte in questa mobilitazione filomariniana Sabrina Ferilli e Simona Marchini. La quale ha profittato dell’occasione anche per mandare un messaggio al cugino Alfio, che però la chiama zia: non si azzardi a candidarsi a sindaco con il centrodestra perché lei non lo voterebbe mai, volendo rimanere fedele agli insegnamenti e alle tradizioni comuniste di padri e nonni, e scongiurarne il rivolgimento nelle tombe.
Eppure il povero Alfio, naturalmente il giovane, si era proposto recentemente di succedere a Silvio Berlusconi alla guida del centrodestra, non solo a Roma ma in tutta Italia, anche per “far tornare a votare”, sia pure metaforicamente, nonno Alfio. Che sarebbe rimasto orfano, già in vita, della politica degli “ideali” e dei “valori” una volta accasata nel palazzone romano di via delle Botteghe Oscure donato dalla sua famiglia al Pci di Palmiro Togliatti.
Viene un po’ di vertigine in tutto questo, lo ammetto. Come nell’idea che davvero Marino riesca a mettere su nei suoi epocali venti giorni di riflessione quella “seria verifica” proposta a chi volesse aiutarlo a rimpastare ancora una volta la giunta e a riproporsi al Consiglio Comunale per il proseguimento della sua avventura, alla faccia di Renzi e compagni, o amici.
(ECCO COME ALFIO MARCHINI SI SCALDA PER IL CAMPIDOGLIO. ARCHIVIO DI PIZZI)
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Nel panorama dei giornali a guidare la guerriglia di Marino è il Fatto, che contrappone “a qualche cena da poche centinaia di euro ciascuna” contestata al sindaco il milione di euro di spese di rappresentanza di Renzi nei cinque anni di presidenza alla Provincia di Firenze, fra il 2004 e il 2009. Un milione di cui 70 mila in soli tre anni per viaggi negli Stati Uniti e 600 mila in ristoranti, anche “a botte di 1000 e 2000 euro” per una cena o un pranzo, senza indicazione di ospiti. Alla cui identificazione ha cercato di provvedere, per la parte di sua competenza, un ristoratore di Firenze con tanto di intervista indicando fra i commensali “moglie e amici” di Renzi. E lamentando la caduta degli incassi da quando il suo illustre e munifico cliente si è trasferito politicamente a Roma.
Con riserva di fare le pulci, prima o poi, anche ai conti di Palazzo Vecchio, dove Renzi ha poi governato da sindaco di Firenze, il Fatto si è premurato di fare il nome e cognome – Giovanni Palumbo – del funzionario che certificò le spese renziane di rappresentanza da amministratore locale. E che lo ha seguito a Palazzo Chigi per “non lasciarlo solo”.
Bisogna forse allacciarsi le cinture di sicurezza volando fra gli scontrini in questa guerra casereccia che riesce a prevalere mediaticamente persino sulle guerre vere in corso, vicine e lontane. Una guerra in cui Marino, a cavallo di una bottiglia di vino da 55 euro, viene sorpassato nei cieli d’Italia da Renzi alla guida di un jet da 175 milioni di euro.
(L’ULTIMA FESTA DEL FATTO DI TRAVAGLIO VISTA DA PIZZI. TUTTE LE FOTO)