I coltelli raffigurati da Ignazio Narciso Marino nelle mani dei 26 consiglieri comunali che, dimettendosi simultaneamente, hanno fatto decadere l’amministrazione capitolina a cominciare dal sindaco, hanno naturalmente scatenato, come forse lo stesso Marino voleva, la fantasia storica. Marino – si è scritto e si è dipinto nelle vignette o fotomontaggi – pugnalato come Cesare.
Con gli anni però non ci siamo, perché Caio Giulio Cesare ne aveva 56 e Marino 60. Con il posto nemmeno, perché Cesare fu pugnalato al Senato, non in Campidoglio, dove invece si rifugiarono i 60 congiurati per proteggersi dalle reazioni degli avversari. Con la fine nemmeno, perché Cesare fu veramente ammazzato e Marino lo è stato solo metaforicamente. E non ci siamo neppure con i pugnali da lui enfaticamente evocati perché per Cesare – l’uomo che secondo Christian Matthias Theodor Mommsen “operò e creò come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui” – ce ne vollero 28. Per Marino ne sono bastati 26, e di latta come quelli imbracciati dai falsi centurioni ora in posa davanti alle cineprese dei turisti.
Neppure con le date ci siamo. La sanguinosa congiura contro Cesare si consumò a metà marzo del 44 avanti Cristo, e quella solo metaforica, ma avvertita ugualmente come sanguinosa dall’interessato, a fine ottobre di questo sgangherato 2015.
Quelle di Marino sono state e sono quindi Idi per modo di dire, decisamente fuori stagione. Eppure all’ex sindaco di Roma, furente per la corsa contro il tempo ingaggiata e persa con il suo partito, il cui segretario Matteo Renzi è stato allusivamente indicato come “mandante” dei sicari, non è venuta in mente altra immagine che quella di Cesare come termine di paragone per la conclusione almeno di questa parte della sua avventura politica. Si vedrà se non ci ripenserà anche sul proposito minacciato di partecipare alle primarie ed eventualmente alle prossime elezioni comunali, avvolto nel lenzuolo che si è costruito di martire, fatto fuori dai poteri cosiddetti forti e, già che ci siamo, anche mafiosi di Roma, d’Italia e forse anche del mondo.
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D’altronde, era proprio sotto la statua di Cesare, nell’omonima aula del Consiglio Comunale di Roma, che Marino aveva cercato, ritirando le sue dimissioni prima della scadenza dei termini lasciatigli dalla legge per ripensarci, di recitare il suo ultimo spettacolo da sindaco. Che consisteva nella sfida al suo partito, il Pd, a sfiduciarlo mescolando i suoi voti, e insozzandoli, con quelli delle odiate opposizioni, provenienti dalle “fogne” della destra, da lui stesso tante volte evocate, o dalla stratosfera delle cinque stelle di Beppe Grillo, o da entrambe.
Altri, specie sui giornali indulgenti con Marino in funzione antirenziana, si sarebbero accontentati di un semplice dibattito in Consiglio Comunale perché tutti potessero esprimere le loro opinioni e facessero “finalmente” capire all’opinione pubblica le ragioni del dissenso dal sindaco.
Ci sono in questa posizione giornalistica, e insieme anche politica, un’ammissione sorprendente d’incapacità professionale e una disistima totale dell’opinione pubblica. Incapacità professionale di raccontare e spiegare ai lettori e al pubblico con articoli informati, e non solo di gossip, gli avvenimenti svoltisi in questi ultimi mesi. Disistima totale dell’opinione pubblica ritenendola incapace di capire cose, uomini, donne e situazioni, senza la cronaca di una seduta del Consiglio Comunale.
Si è persino tentato di presentare il mancato dibattito nell’aula di Giulio Cesare come un insulto illegittimo agli elettori di Marino. Lo si è fatto anche nel salotto televisivo della Gruber, a la 7, purtroppo con la complicità pur sorridente della graziosa conduttrice, per cui il confronto fra gli ospiti è risultato scorrettamente di due contro uno: la stessa Gruber e il vice direttore dell’Espresso Marco Damilano contro Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario del partito a Roma.
Marino fu certamente eletto due anni e mezzo fa direttamente dai cittadini, in forza però di una legge che prevede anche la possibilità della decadenza del sindaco e dell’amministrazione in qualsiasi momento del mandato, quando si dimette la metà più uno dei consiglieri comunali, com’è appena accaduto in Campidoglio. Dove sono quindi la illegittimità e l’affronto agli elettori, di cui si ciancia?
Sarebbe poi opportuno interrogarsi sul tipo di rispetto che ha avuto Marino nei riguardi del Consiglio Comunale, anch’esso eletto dai cittadini, quando egli ha evitato di informarlo su tutti i passaggi della sua agitata sindacatura, preferendo anche lui parlarne nel segreto di qualche stanza con dirigenti ed esponenti di partiti ora tanto odiati.
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Il governo, tramite il prefetto di Roma Franco Gabrielli, ha lodevolmente provveduto a riempire con rapidità il vuoto capitolino nominando commissario straordinario Francesco Paolo Tronca, palermitano, 64 anni, proveniente dalla felice guida della Prefettura di Milano, dove ha concorso al successo dell’Expo in festosa chiusura.
Nulla da dire, per carità, sui requisiti del prefetto Tronca, che saprà fare bene anche alle prese con le difficoltà vecchie e nuove del Campidoglio, e con il Giubileo alle porte. Ma non è, diciamo così, gradevole che questa nomina sia avvenuta all’indomani delle improvvide polemiche provocate dal presidente dell’Autorità anti-corruzione, il magistrato Raffaele Cantone, sul sorpasso “morale” di Milano su Roma. La Milano dell’Expo e del prefetto Tronca, appunto. Che però, nominato e non autopromosso, merita adesso tutti gli auguri e gli incoraggiamenti di cui ha bisogno nella Capitale, quella vera, d’Italia.