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Perché sono state fatali quelle cenette di Marino

Tanto va la gatta al lardo che ci rimette lo zampino. E’ stato anche il caso dell’ormai dimissionario Ignazio Marino, con rima incorporata.

Incorso già in avventure contabilmente spiacevoli negli anni in cui lavorava per l’università americana di Pittsburgh, che gli contestò spese sostenute a Palermo per alcuni pasticci nelle ricevute da lui attribuiti ad una segretaria troppo distratta, Ignazio Marino si è ritrovato nei guai per cene e pranzi di rappresentanza come sindaco di Roma. Con ospiti che hanno smentito o non ricordato e ristoratori che hanno raccontato particolari imbarazzanti degli incontri conviviali pagati da Marino con la carta di credito del Campidoglio. Alla quale, una volta investito dalle polemiche degli oppositori, egli ha rinunciato decidendo di rimborsare al Comune di tasca sua qualcosa come ventimila euro.

Questa volta a distrarsi, diciamo così, è stato proprio lui, che ha sottoscritto dichiarazioni indicando nomi e qualifiche di ospiti inconsapevoli, fra i quali un ambasciatore vietnamita. I grillini ne hanno reclamato subito le dimissioni dandogli del bugiardo, seguiti da molti nello stesso partito di Marino, senza aspettare le conclusioni delle verifiche e indagini avviate nelle sedi competenti. Fra le quali non si è ancora capito se sia rientrata anche la Prefettura di Roma, il cui titolare era stato avvertito dallo stesso Marino come  suo “badante”.

Il poveretto, collezionista eccezionale di gaffe, è rimasto intrappolato in una faccenda penosamente banale. Eppure era scampato, bene o male, almeno sino al momento delle dimissioni, al  coinvolgimento diretto in una vicenda giudiziaria chiamata addirittura “Mafia Capitale”,  enfatizzata anche da lui per rimandare nelle fogne da cui provenivano, a suo modo di vedere, i sostenitori del suo predecessore Gianni Alemanno. Sono venute meno per Marino anche la complessità e la drammaticità di uno scenario di mafia, in cui uno magari si ritrova per un po’ a sua insaputa, com’è accaduto proprio ad Alemanno, che è finto sotto processo per corruzione ma non per mafia a causa dei rapporti con le cooperative di Salvatore Buzzi, e Massimo Carminati, ben note peraltro anche al successore.

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Parole e sentimenti di comprensione, e persino di solidarietà umana, merita per l’accaduto il presidente del Pd Matteo Orfini, che come commissario del partito a Roma aveva voluto assumere anche lui il ruolo di co-badante del sindaco, come direbbe lo stesso Marino parafrasando l’immagine usata per il prefetto Franco Gabrielli. Badante politico il primo, badante amministrativo il secondo. Si era troppo affollato insomma il capezzale del primo cittadino di Roma.

Imbarazzato per le ultime notizie sul sindaco, il povero Orfini aveva detto di non volersi occupare di “scontrini”, cercando di rimuovere così il problema non tanto delle ricevute e fatture, quanto delle dichiarazioni o certificazioni che le hanno accompagnate, rimaste però inesorabilmente fra le carte, non certo cestinabili. E si era messo pure lui in paziente e sofferta attesa degli sviluppi della vicenda, o del sopraggiungere di altri temporali nel cielo della Capitale, già annuvolato di suo.

Il commissario del Pd romano si è probabilmente pentito amaramente di essersi messo di traverso nei mesi scorsi sulla strada dell’altro Matteo, Renzi, che con preveggenza voleva chiudere con molta fretta il capitolo Marino. E che fu invece trattenuto da Orfini col ricordo dell’investitura “popolare” del sindaco, eletto direttamente dai cittadini. Una cosa, questa del mandato popolare, che Marino aveva preso così sul serio da prenotare la candidatura alle prossime elezioni per restare in Campidoglio addirittura sino al 2023, quando egli contava di “chiudere con la politica” e di imporre alla moglie l’ennesimo trasloco, questa volta nella lontanissima Sidney: in capo al mondo, direbbe Papa Francesco, che è venuto a Roma dall’Argentina.

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Oltre alla ricandidatura, esigente com’è, Marino aveva prenotato la coalizione che intendeva guidare: rigorosamente “di sinistra”, intesa probabilmente nel modo più vasto possibile, comprensiva pure di quelli che, usciti dal Pd, non si sono fermati a Nichi Vendola sospettandolo di non essere abbastanza alternativo a Renzi, e ora anche a Denis Verdini.

La prenotazione era stata annunciata dal sindaco in uno dei soliti salotti televisivi dopo avere assistito, stupefatto, alle riprese di scene di ordinario disservizio per le strade e sui mezzi di trasporto della città, condividendo le proteste dei cittadini e spiegandone le ragioni con la impossibilità di licenziare lavativi, incapaci e forse anche ladri, troppo protetti dalle leggi sul lavoro.

Doveva e deve avere una bella confusione in testa il chirurgo trapiantatore e itinerante se ha pensato di poter cambiare o far cambiare quelle leggi, e garantire davvero e finalmente un minimo di efficienza ai servizi pubblici, con l’aiuto della sinistra a lui tanto cara. Che considera quelle norme qualcosa di intoccabile e sacrale, pronta a fare le barricate in Parlamento e in piazza contro chiunque tentasse di mettervi mano. Una confusione, quella politica di Marino, superiore anche al pasticcio dei suoi scontrini.

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Da Palazzo Madama arrivano, ai margini delle votazioni sulla riforma del Senato, notizie o minacce di ulteriori scomposizioni di quello che fu il centrodestra, riguardanti stavolta il partito di Angelino Alfano e quello costituito da Raffaele Fitto uscendo da Forza Italia. L’area ex berlusconiana sembra ormai diventata una tonnara.


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