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Perché Grom non era più Grom

Amo il gelato artigianale, oggi termine ambiguo da maneggiare con cura, perché spesso il bastardello nasce da un semilavorato di opaca provenienza, da un neutro, insomma tecniche industriali per conservare le materie prime, ridurre i tempi di lavorazione, etc. Da sempre, lo compro in una gelateria artigianale (vera). Una dozzina d’anni fa, dopo un intelligente battage pubblicitario, aprì a Torino, una gelateria (in piazza Paleocapa), sull’insegna Grom, seppi poi che si trattava, non di una sigla, ma di un profugo istriano in società con un coetaneo della Torino bene. Fui fra i primi clienti, Grom si posizionò sul livello massimo di prezzo, mi piacque, non trovavo differenze rispetto al mio fornitore storico, anzi apprezzai come spalettavano a lungo l’extranoir per portarlo alla corretta cremosità.

Un anno dopo aprirono un secondo negozio, a poche decine di metri da casa mia, divenne il mio secondo fornitore. Grom colpì l’immaginario, due trentenni, una start up fatta con poche decine di migliaia di euro, e non in un garage (Torino è carente di garage privati), subito amati da Berlusconi (e poi da Renzi), la crescita come strategia, il mondo come mercato, tra i primi in Italia a declinare il verbo dell’emotivamente corretto, fino all’apoteosi del carrettino a Palazzo Chigi. Nel pieno del successo, ebbi i primi dubbi (perché il prezzo bloccato a 20 /kg, mentre gli altri lo aumentavano?), lo spalettamento si era fatto languido, la qualità non mi convinceva più, la «spuzza» di industria ormai si percepiva, mi sfilai.

Il loro modello dl business era a scarsa capitalizzazione ma proiettato alla crescita, rischiava un percorso obbligato, prima l’abbraccio (mortale) con i consultant, le banche d’affari, il tarlo della borsa, poi i debiti, quindi la vendita forzata. L’ineccepibile analisi su conto economico-stato patrimoniale del nostro Andrea Montanari di Milano Finanza lo ha confermato, la vendita a Unilever come scelta obbligata. Il sogno glocal di Grom finito: addio cono in cialda friabile, arriverà il bastoncino di legno dei cugini acquisiti, Magnum e Cucciolone.

È lo stesso percorso sul quale si è avviato il fantasmagorico Farinetti per Eataly. Lo stesso, come ovvio con ben altre dimensioni e complessità, di Fca, però qua c’è la grande fantasia comunicativa di Marchionne. Lui esce dagli schemi classici, spinto a vendere dai numeri, si inventa (copyright mondiale) il «consolidamento imposto». Il concorrente più grande e più ricco è psicologicamente costretto dal più piccolo e più povero a comprarlo, alle sue condizioni. Un genio assoluto.

Sui media grandi spazi al caso Grom, penne nobili si sono esercitate con articoli soffusi da tristezza, stupefatti che i due giovani virgulti di un capitalismo italico, nuovo, pulito, emotivamente corretto, abbiano venduto a un Gruppo olandese di detersivi. Capisco i colleghi, forse non hanno ancora compreso il mutamento profondo del capitalismo, dopo la Grande Crisi del 2007.

Mi è piaciuto molto il pezzo di Michele Serra, perché è l’articolo di uno sconfitto, come uno sconfitto sono io, per motivi agli antipodi dai suoi, appartenendo noi a giardini zoologici diversi. Immagino la sofferenza di un uomo di sinistra che da anni, dopo aver elaborato il lutto del comunismo, con grande fatica era avviato ad accettare una qual forma di capitalismo umano. Infatti usa una bella immagine, chiedendosi «si può crescere senza perdere l’anima»? Vorrebbe sentirsi dire «sì», per non considerarsi un’altra volta sconfitto, purtroppo la risposta è «no», e gliela do io, liberale, a mia volta uno sconfitto, da questa forma bastarda di capitalismo.

Caro Serra, lei ha usato un’altra bella immagine, paragonando Unilever a un grattacielo, e Grom a una bottega, e si augura che il grattacielo non fagociti la bottega. Mi permetta di dirle di nuovo no: Grom, da anni, non è più un’azienda artigianale, dopo la denuncia del Codacons (!) hanno dovuto ammettere che neppure il loro prodotto è «artigianale». Da tempo era un prodotto industriale, mascherato da artigianale (il cono), ora potrà, senza mentire, farsi confezione col bastoncino di legno e finire in qualche elegante vaschetta, dal packaging elegante, raggiungendo nel fresco dei supermercati i cugini Magnum e Cucciolone. La fine di un sogno. Nel grattacielo Unilever non ci sono botteghe, solo corner, per consumatori allocchi, che si credono chic. Questo passa il «grattacielo». Facciamocene una ragione.

Foto: Flickr/Andrew Childs

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